L'ULTIMA GHIGLIOTTINA


I confratelli della Misericordia, al suono del loro campanaccio, sfilavano in testa al corteo con il viso incappucciato e le occhiaie a buco vuoto, dietro una croce altissima seguiti da un feretro con la cassa. Erano le cinque del mattino del 27 settembre 1874. Cadeva una fitta pioggia che rendeva più cupa la penombra dell’alba, appena rischiarata dalla fioca luce della lanterna appesa al muro delle carceri. In fondo al corteo c’era lui, vestito di nero e scalzo, con gli occhi bendati da un velo nero come la tunica che indossava. Pochi passi più avanti, con ritmo cadenzato, incedeva il boia venuto da Palermo, in tela blu con una sciarpa rossa a tracolla sul petto, mentre il suo aiutante, vestito di bianco, sosteneva il condannato che aveva le mani legate dietro la schiena.
Sembrava di essere tornati in pieno medioevo, quando le “auto da fé” esibivano in piazza il lugubre spettacolo della morte e, come allora, anche quella mattina piovosa in Piazza d’Armi c’era tanta gente, cinquemila persone, a vedere come si moriva, sebbene all’evento non fosse stata data pubblicità alcuna. Un battaglione di soldati, carabinieri e guardie doganali stentarono per tenere sgombra l’area intorno al palco dell’esecuzione.
Il condannato era un ragazzo di 19 anni, Adriano Panari, di Città di Castello, parricida. Il padre di questo sventurato figliolo aveva un mulino sul Tevere, a tre chilometri dalla città, e un podere nel quale si recava ogni tanto. Nella mentalità di questa gente che si era fatta una posizione da sola tra sacrifici e rinunce, la “roba” assumeva un valore fondamentale e il suo mito non era solo una caratteristica siciliana, immortalata proprio in quegli anni da Verga.
Secondo i programmi paterni, Adriano aveva frequentato la scuola in città per imparare a leggere e scrivere, poi era tornato sulla riva del fiume ad apprendere l’arte del mugnaio e amministrare il podere.
Ogni tanto faceva una scappatina a Castello a trovare gli amici e bazzicava volentieri l’osteria. Con il passare del tempo, la presenza in taverna fu più assidua di quella al mulino e i genitori dovettero intervenire in più di un caso per pagare i debiti. Finì anche per innamorarsi di Maria, una ragazza del posto, figlia di un modesto beccaio. Ma quel matrimonio non si doveva fare e il padre si sforzava di spiegare al figlio che i genitori di lei volevano imparentarsi “perché a forza di sudore mi son fatto la roba.” L’atteggiamento non cambiò nemmeno quando Adriano annunciò al padre che Maria lo aveva reso nonno.
Il giovanotto, che oltre ad essere sciagurato doveva avere una bella dose di sprovvedutezza per credere di farla franca, si rivolse ad un amico di osteria, Lazzaro Merendini, ancor più sprovveduto di lui, affidandogli l’incarico di uccidere il padre per 10 scudi.
In una grigia mattina di novembre del 1873 i due complici si acquattarono in un fosso lungo la strada che il padre avrebbe percorso per recarsi al podere. Lazzaro doveva accoltellare il vecchio, e Adriano controllare che le cose fossero eseguite a regola d’arte. I fatti si svolsero pressappoco secondo il programma e Merendini pugnalò più volte il mugnaio sotto gli occhi imperterriti del figlio; poi, per strade diverse, tornarono in città.
Ma qualcosa andò storto e l’omicida, non avvezzo a simili imprese, fu visto correre per i vicoli cittadini con la faccia stravolta; inoltre la povera vittima, soccorsa ancora in vita, aveva fatto il nome del suo assassino. La ricostruzione dei fatti non costò molta fatica alla polizia giudiziaria anche perché i due giovani vuotarono subito il sacco.
I giudici già da tempo erano molto restii a pronunciare sentenze capitali per delitti comuni previste dal codice sardo allora in vigore, dal momento che l’abolizione della pena di morte era stata discussa e approvata dalla Camera dei Deputati fin dal 1865, ma il Senato, di nomina regia, l’aveva respinta. Per uno strano gioco ereditato dalle legislazioni precedenti e rispettate dal regno unitario, il patibolo era stato abolito solo in Toscana. Ma nel caso specifico, il tribunale non ebbe esitazione a pronunciare la sentenza più grave e Adriano fu condannato alla pena capitale, mentre Lazzaro a quella dell’ergastolo. Non venne accolta nemmeno la domanda di grazia rivolta al Re per la commutazione della pena.
All’apparire del corteo, la folla incominciò a gridare: “Giù gli ombrelli!” Voleva assistere a tutto lo spettacolo, come se avesse avvertito il presentimento che si trattava dell’ultima occasione, almeno a Perugia. Dieci anni prima altre due teste erano state tagliate, l’11 luglio del 1864, quelle di Innocenzo Scucchi e di Gioacchino Cagioli di Città della Pieve che avevano massacrato madre e figlio mentre rubavano in un appartamento. Quella volta il boia era venuto da Bologna.
Sul palco già svettavano minacciosi i due pali metallici paralleli, alti due metri, tra cui doveva scorrere la lama della ghigliottina appesantita da trenta libbre di zavorra per duplicarne la forza. Alle 5,30 il tonfo sordo del “rasoio nazionale” francese recise il collo di Adriano, adagiato con cura sullo strettoio dall’aiutante del boia, mentre un comando secco ordinava ai soldati il dietro-front per frenare la spinta dei presenti intenzionati ad intingere un dito nel sangue, secondo la descrizione dettagliata e impietosa di un testimone oculare.
I commenti si udirono subito: “Hanno fatto bene”, “Benissimo”, “Se lo meritava”, intercalati da voci femminili “Come era tranquillo”, “Sembrava un bel giovane”, “Aveva una bella statura”… Qualcuno chiese alla tante donne presenti perché avessero portato anche i bambini: “Per far loro vedere il castigo che si meritano i figli disobbedienti”, fu la risposta.
Quando nel 1889 il codice Zanardelli abolì la pena di morte, la decisione non fu certo dettata dalla spinta del furore popolare.
Pochi giorni dopo i cantastorie, nelle fiere e nei mercati cittadini, affidavano alle note la sorte di questo sventurato ragazzo fissata su foglietti di carta: “Chi brama d’aver la memoria/ di questo infelice figliolo/ tutta la dolente storia/ vi costerà un soldo solo.”
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 4 maggio 2007)