ROCCA PAOLINA


“O bella a’ suoi bei dì Rocca Paolina…”. Anche Carducci, un poeta che non aveva certo simpatie papaline, sembra rimpiangere la scomparsa di un monumento unico nel suo genere.
Antonio Sangallo studiò accuratamente il luogo dove edificare la Rocca e d’accordo con Paolo III scelse il Colle Landone, non perché lì sorgevano le case dei Baglioni che il Papa sopportava come il fumo negli occhi, ma perché la posizione era la più felice di tutte quelle possibili. Dal colle si dominava il centro della città, il Borgo di San Pietro e di Porta Eburnea, si controllava la cinta delle mura fino a Monteluce, con un’occhiatina ad Assisi, ma soprattutto si dominava la vallata nel punto dove confluivano le vie provenienti da Roma e da Firenze. La cittadella che doveva sorgere a difesa di Perugia si collocava proprio sulla strada da dove si erano scatenati tutti gli assalti e gli assedi, da Totila in poi. Gli altri lati della città, come i dirupi del Bulagaio e le fratte di Porta Sant’Angelo, non davano preoccupazioni perché non erano accessi per eserciti invasori, ma solo vie di fuga per piccole pattuglie di soldati. Il Papa Farnese, che voleva fare di Perugia e di Ancona le due città fortificate ai confini del suo Regno, a questi particolari ci guardava e autorizzò il Sangallo ad iniziare i lavori sul Colle Landone.
Le esigenze della costruzione della fortezza cittadina provocarono danni tali che nessun terremoto o saccheggio aveva mai provocato prima. Furono demolite nove chiese, due monasteri, 26 torri e 138 edifici fra case di poveri e palazzi di ricchi. Fu scapitozzato il campanile di San Domenico che con i suoi 126 metri superava l’altezza del Colle Landone, demolito l’arco etrusco che si trovava all’inizio di via dei Calderari, oggi via Alessi, e rase al suolo altre strutture di minore importanza.
Il Papa aveva fretta e in poco più di due anni la fortezza venne solidamente impiantata sopra le vecchie mura etrusche che andavano da Sant’Ercolano a Porta Eburnea e si sovrappose a larghi scorci dell’antico Borgo Medioevale. L’imponente mole, che si notava da lontano per il vermiglio colore dei laterizi con cui era interamente costruita, aveva un propugnacolo, detto la “Tanaglia”, che si allungava in discesa per oltre trecento metri, fino a Santa Giuliana, con un corridoio interno per il passaggio degli uomini e dei materiali.
Il Maschio, che vigilava il centro cittadino, portava scolpito in cotto Paolo III seduto sul trono e benedicente e più in basso, ai lati dell’ingresso principale, gli facevano ala San Pietro e San Paolo, realizzati da Ippolito Scalza di Orvieto. All’interno, nel cortile d’onore detto della “Stella”, un'epigrafe latina ricordava l’evento tessendo le lodi di Papa Farnese e si chiudeva con una data: 1543.
Il Sangallo aveva costruito una cittadella che era un capolavoro difensivo. Ad abbellirla e a rendere confortevole la parte nobile ci pensò Galeazzo Alesssi. L’architetto perugino realizzò, nella spianata terminale, il Palazzo del Castellano, la Chiesa degli Apostoli e la Loggia Dorica, una specie di Partenone dell’acropoli pontificia. Così la Rocca, alla sua mole maestosa, aveva aggiunto anche la grazia e non esagerò il Carducci a definirla “bella”.
Nonostante la sua imponente bellezza, essa rimase l’emblema del potere papale. Non di quello politico, si badi bene, che era alloggiato a Palazzo dei Priori, ma di quello più odioso e repressivo rappresentato dalla gendarmeria e dalle carceri. In altre parole, la Rocca Paolina fu per i perugini quello che la Bastiglia fu per i francesi. E’ comprensibile, anche se non del tutto giustificabile, l’odio a lungo covato contro un simbolo che alla prima occasione doveva essere rimosso dalla vista e dalla memoria.
E l’occasione arrivò. Il 13 dicembre 1848 il Gonfaloniere, conte Benedetto Baglioni, sferrò la prima picconata sopra “le pietre cementate sulla rovina delle avite sue case perché la mano della più percossa vittima per uffizio ministro del pubblico sdegno vendicasse la patria oltraggiata”. Il conte non aveva tutti i torti perché, dati i suoi rapporti con il Papa, fu uno dei pochi a non essere risarcito per la demolizione dei suoi palazzi, ma che un Baglioni si presentasse ai perugini come vittima era una grossa forzatura alla storia.
Il popolo si avventò sulle mura della fortezza come uno sciame di api. In breve tempo furono distrutti proprio i capolavori dell’Alessi, gli stemmi, i capitelli, gli architravi, gli altari della chiesa, le statue di San Pietro e San Paolo. La furia e il disordine arrivarono a tal punto che l’otto marzo 1849 morirono quattro persone e trentadue furono gravemente ferite per l’uso maldestro delle mine.
In verità ci fu chi si adoperò per salvare la Rocca, convinto che la distruzione di un monumento non servisse a cancellare la storia. Il pittore Nicola Benvenuti, ad esempio, fece del tutto per salvare almeno la Loggia Dorica dell’Alessi, ma il popolano Egizio Bettini lo rimbeccò gridando: No, no, che allesso e che arrosto: no, volemo brodo e acini! E vinse il fanatismo.
Una mattina d’estate il piccone sparì. La Repubblica Romana era caduta e Pio IX aveva ripreso il potere. Rimanevano in piedi, anche se deturpati e in gran parte distrutti, la Loggia, il Mastio e l’appartamento del castellano. Il lavoro di demolizione non era stato ultimato. Ma si trattò di un rinvio a data migliore e risolutiva, che arriverà dopo dieci anni.
Questa volta a dare il via ai guastatori non fu il piccone di un conte, ma la penna di un giornalista. Nei primi giorni di gennaio 1861 la Gazzetta dell’Umbria affermava che “consultando il cuore dei perugini tutti, con unanime plebiscito si avrebbe il responso: dell’odiata rocca non deve rimanere pietra su pietra”. Il giornalista, folgorato da reminiscenze manzoniane, aggiungeva che al suo posto doveva essere eretta una colonna infame con l’epigrafe: Qui era la Rocca Paolina - Oro di tirannide la eresse - Aura di libertà la disperse.
Se tutti furono concordi nel portare a termine la demolizione della fortezza, le opinioni si divisero sulla destinazione da dare alla vasta area che essa liberava. Si fronteggiarono due proposte: l’edificazione di altri palazzi o la creazione di un parco, circondato su tre lati da portici, nel cuore della città alta. Ma il solito articolista aveva pensato anche a questo: “La nostra città ha forma di capitale nelle sue due strade del Corso e di via Riaria (Baglioni) e di piazza Sopramuro (Matteotti). Bisogna però prolungarle al possibile ché hanno il difetto di essere troppo corte”. Alla Gazzetta avevano le idee chiare ed erano convinti che il prolungamento del Corso e di via Riaria di un centinaio di metri avrebbe reso più “capitale” la città di Perugia.
Purtroppo non era solo la redazione del giornale a pensarla così. E sorsero altri palazzi, anziché un’oasi verde ed ombrosa di cui anche oggi si sente il bisogno.
Su una parte delle rovine della Rocca, qualche anno dopo, verrà eretto Palazzo Arienti. Ma questa è un’altra storia.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria dell'11 luglio 2006)