
GLI INQUILINI DELLA ROCCA PAOLINA
Il 28 giugno del 1540 fu posata la prima pietra della “superbissima ed inutilissima mole” che doveva troneggiare sul Colle Landone. A volerla fu il Papa Paolo III per una sua fisima personale perché i Perugini erano vissuti duemila anni entro quelle solide mura, senza bisogno di un fortilizio del genere, per la cui realizzazione fu sbriciolata mezza città. Ma dopo il sacco di Roma del 1527 ad opera degli Spagnoli, il cardinale Alessandro Farnese, che si era salvato in Castel Sant’Angelo, si affezionò a quel tipo di cattedrali. Diventato Papa, volle costruire il suo bunker nell’inquieta Perugina, “inimica suis”, e l’andamento dei lavori gli stava tanto a cuore che per ben sette volte venne a vedere come procedeva la sua creatura. Alla maestosità difensiva di Antonio Sangallo, Galeazzo Alessi aggiunse la grazia delle linee architettoniche e l’imponente cittadella, aveva un aspetto superbo ed elegante quando, dopo soli tre anni, ospitò i primi inquilini. Da quel momento fu testimone muta e puntuale delle vicende dell’acropoli, destinata ad ospitare di volta in volta i vincitori di turno.
La Rocca Paolina divenne così il simbolo del potere nei suoi aspetti più biechi del carcere e delle guarnigioni militari e per questo non entrò mai nel cuore dei Perugini ai quali ricordava arroganze, soprusi e ingiustizie. Per due secoli e mezzo vide aggirarsi intorno alle mura i rancori più o meno sopiti dei nobili sempre astiosi tra loro, l’apatia del potere incartato su se stesso e intento a celebrare la sacralità dei suoi riti, la sudditanza di una borghesia docile e rassegnata, il duro lavoro dei servi della gleba nella campagna del contado. Al suo interno, le segrete ospitavano i criminali comuni e chi dava fastidio ai potenti; al piano terra erano sistemate le armerie e le caserme della truppa; negli appartamenti nobili dei livelli superiori abitavano gli ufficiali e i dignitari del regime. Il delegato papale non alloggiava in quel labirinto, ma nel tempio del vero potere politico, rappresentato anche allora dallo storico Palazzo dei Priori.
Alla fine del Settecento, la calma secolare subì i primi scossoni. Gli abitanti della Rocca furono investiti dal vento del nord ed ebbero paura perché la borghesia francese aveva alzato la cresta e sovvertito il tradizionale ordine politico e sociale. L’epidemia avrebbe potuto contagiare l’Italia, anche se la borghesia nostrana, per il momento, non dava segni evidenti di pruriti rivendicativi. Ma si sa che le rivoluzioni si possono esportare anche con le armi ed il 4 febbraio del 1798 un contingente francese occupò Perugia. Il Governatore Pontificio abbandonò la città; i repubblicani presero possesso della Rocca, distrussero le insegne papali e le statue di Giulio III e Sisto V. Nella fortezza ora spadroneggiavano gli uomini di Agretti, il facinoroso ideologo giacobino, attorniato da altri suoi amici, tra cui il frate Urbano Tornera. I nuovi padroni non durarono a lungo, travolti dall’impopolarità per i soprusi della truppa straniera che li proteggeva e sconfitti dalla seconda coalizione europea contro Napoleone. La repubblica imposta dalle armi francesi, finì tra le fucilate, così come era nata. Il 31 agosto dell’anno successivo, dodicimila soldati austriaci e aretini accettavano a Pian di Massiano la resa di una città stanca e infastidita. I giacobini, asserragliati nella fortezza agli ordini del frate Tornera, si erano difesi fino all’ultimo. Tra i coordinatori delle truppe aretine c’era un prete, don Pietro Ciucci, che con cadenze ricorrenti incitava i suoi soldati a gridare il celebre slogan “Viva Maria!”. Sarà stata la rivalità tra il clero regolare del frate e quello secolare del prete, avrà giocato l’irritazione per quella falsa e ostentata devozione alla Madonna, avrà bruciato lo smacco per l’imminente sconfitta, sta di fatto che padre Tornera, incavolato nero, dalla sommità della Rocca, ricorse alla sua ultima arma difensiva mostrando agli aretini il fondo schiena nudo e gridando: “Madonnari, qua non si entra!” Il comico gesto aveva un precedente famoso avvenuto tre secoli prima con Caterina Sforza che lasciò di stucco Cesare Borgia durante l’assedio di Forlì. Di fronte alla minaccia del Valentino di ucciderle i figli prigionieri nelle sue mani, l’intrepida donna, dalla torre della Rocca di Ravaldino, alzò le vesti e mostrò lo strumento con il quale, a suo dire, di figli ne avrebbe potuti fare un’altra decina.
La Rocca Paolina restò impassibile al cambio della guardia e accolse indifferente gli uomini del Vicario Imperiale Camillo della Gherardesca. Iniziava il periodo della Cesarea Reggenza che durò poco perché la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) riportò i Francesi ad essere gli indiscussi signori delle vicende italiane. Ormai ai traslochi in fortezza ci si era fatta l’abitudine e gli imperiali di Francesco II d’Austria lasciarono il posto ai mercenari papalini controllati da Napoleone. Il 17 maggio del 1809 ebbe fine anche la parvenza del potere temporale dei papi e lo Stato Pontificio fu annesso formalmente alla Francia. Alla Rocca ora sventolavano i vessilli di Parigi, ma si sa che il vento politico cambia spesso direzione a scapito del popolo che è costretto ad improvvisi adattamenti, spesso seguiti da strascichi poco piacevoli o addirittura dolorosi.
Il 24 aprile del 1814, Pio VII riprendeva possesso del potere temporale e iniziava la restaurazione. La Rocca di Paolo III tornava nelle mani del Papa ancora per qualche decennio. I fatti del 1831 non ebbero conseguenze sconvolgenti a Perugia e la vita continuò come prima per il fallimento scontato di una sommossa improvvisata, senza coordinamento e ancora minore strategia. Più consistente sembrò il terremoto politico del 1848 che rovesciò il regime pontificio e instaurò la Repubblica Romana. In questo frangente qualcuno intravide la fine dei governi nati dalla restaurazione viennese, tanto che il processo politico in atto fu ritenuto irreversibile e incominciarono ad abbattersi le prime picconate demolitrici sul monumento paolino. Ma i tempi erano prematuri ed ancora una volta le armi francesi abbatterono il neonato regime popolare. Strana logica della politica estera, troppo spesso affetta da fisiologica incoerenza: la piccola Repubblica Romana veniva strangolata dall’unica grande repubblica esistente in Europa, quella francese di Napoleone III.
Ma ormai iniziava il decennio di preparazione. Il 14 settembre 1860 le truppe piemontesi di Fanti facevano il loro ingresso a Perugia. Questa volta non c’era spazio per tornare indietro. La grande fortezza perugina non fece in tempo ad ospitare i vessilli del tricolore italiano e il furore degli abitanti scaricò su di essa tutta la rabbia di antiche frustrazioni, ultimando l’opera di demolizione. La prima picconata, infatti, era stata già sferrata dal Gonfaloniere Benedetto Baglioni il 13 dicembre 1848, ma i rivolgimenti politici non consentirono, allora, di completare l’impresa e al nobile perugino non fu possibile vendicare l’esproprio gratuito dei terreni e dei palazzi che la storica famiglia possedeva sul Colle Landone.
Su quel colle oggi troneggia Palazzo Arienti, il Palazzo della Provincia che ospita anche la Prefettura. Ma questa è un’altra storia.
Il 28 giugno del 1540 fu posata la prima pietra della “superbissima ed inutilissima mole” che doveva troneggiare sul Colle Landone. A volerla fu il Papa Paolo III per una sua fisima personale perché i Perugini erano vissuti duemila anni entro quelle solide mura, senza bisogno di un fortilizio del genere, per la cui realizzazione fu sbriciolata mezza città. Ma dopo il sacco di Roma del 1527 ad opera degli Spagnoli, il cardinale Alessandro Farnese, che si era salvato in Castel Sant’Angelo, si affezionò a quel tipo di cattedrali. Diventato Papa, volle costruire il suo bunker nell’inquieta Perugina, “inimica suis”, e l’andamento dei lavori gli stava tanto a cuore che per ben sette volte venne a vedere come procedeva la sua creatura. Alla maestosità difensiva di Antonio Sangallo, Galeazzo Alessi aggiunse la grazia delle linee architettoniche e l’imponente cittadella, aveva un aspetto superbo ed elegante quando, dopo soli tre anni, ospitò i primi inquilini. Da quel momento fu testimone muta e puntuale delle vicende dell’acropoli, destinata ad ospitare di volta in volta i vincitori di turno.
La Rocca Paolina divenne così il simbolo del potere nei suoi aspetti più biechi del carcere e delle guarnigioni militari e per questo non entrò mai nel cuore dei Perugini ai quali ricordava arroganze, soprusi e ingiustizie. Per due secoli e mezzo vide aggirarsi intorno alle mura i rancori più o meno sopiti dei nobili sempre astiosi tra loro, l’apatia del potere incartato su se stesso e intento a celebrare la sacralità dei suoi riti, la sudditanza di una borghesia docile e rassegnata, il duro lavoro dei servi della gleba nella campagna del contado. Al suo interno, le segrete ospitavano i criminali comuni e chi dava fastidio ai potenti; al piano terra erano sistemate le armerie e le caserme della truppa; negli appartamenti nobili dei livelli superiori abitavano gli ufficiali e i dignitari del regime. Il delegato papale non alloggiava in quel labirinto, ma nel tempio del vero potere politico, rappresentato anche allora dallo storico Palazzo dei Priori.
Alla fine del Settecento, la calma secolare subì i primi scossoni. Gli abitanti della Rocca furono investiti dal vento del nord ed ebbero paura perché la borghesia francese aveva alzato la cresta e sovvertito il tradizionale ordine politico e sociale. L’epidemia avrebbe potuto contagiare l’Italia, anche se la borghesia nostrana, per il momento, non dava segni evidenti di pruriti rivendicativi. Ma si sa che le rivoluzioni si possono esportare anche con le armi ed il 4 febbraio del 1798 un contingente francese occupò Perugia. Il Governatore Pontificio abbandonò la città; i repubblicani presero possesso della Rocca, distrussero le insegne papali e le statue di Giulio III e Sisto V. Nella fortezza ora spadroneggiavano gli uomini di Agretti, il facinoroso ideologo giacobino, attorniato da altri suoi amici, tra cui il frate Urbano Tornera. I nuovi padroni non durarono a lungo, travolti dall’impopolarità per i soprusi della truppa straniera che li proteggeva e sconfitti dalla seconda coalizione europea contro Napoleone. La repubblica imposta dalle armi francesi, finì tra le fucilate, così come era nata. Il 31 agosto dell’anno successivo, dodicimila soldati austriaci e aretini accettavano a Pian di Massiano la resa di una città stanca e infastidita. I giacobini, asserragliati nella fortezza agli ordini del frate Tornera, si erano difesi fino all’ultimo. Tra i coordinatori delle truppe aretine c’era un prete, don Pietro Ciucci, che con cadenze ricorrenti incitava i suoi soldati a gridare il celebre slogan “Viva Maria!”. Sarà stata la rivalità tra il clero regolare del frate e quello secolare del prete, avrà giocato l’irritazione per quella falsa e ostentata devozione alla Madonna, avrà bruciato lo smacco per l’imminente sconfitta, sta di fatto che padre Tornera, incavolato nero, dalla sommità della Rocca, ricorse alla sua ultima arma difensiva mostrando agli aretini il fondo schiena nudo e gridando: “Madonnari, qua non si entra!” Il comico gesto aveva un precedente famoso avvenuto tre secoli prima con Caterina Sforza che lasciò di stucco Cesare Borgia durante l’assedio di Forlì. Di fronte alla minaccia del Valentino di ucciderle i figli prigionieri nelle sue mani, l’intrepida donna, dalla torre della Rocca di Ravaldino, alzò le vesti e mostrò lo strumento con il quale, a suo dire, di figli ne avrebbe potuti fare un’altra decina.
La Rocca Paolina restò impassibile al cambio della guardia e accolse indifferente gli uomini del Vicario Imperiale Camillo della Gherardesca. Iniziava il periodo della Cesarea Reggenza che durò poco perché la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) riportò i Francesi ad essere gli indiscussi signori delle vicende italiane. Ormai ai traslochi in fortezza ci si era fatta l’abitudine e gli imperiali di Francesco II d’Austria lasciarono il posto ai mercenari papalini controllati da Napoleone. Il 17 maggio del 1809 ebbe fine anche la parvenza del potere temporale dei papi e lo Stato Pontificio fu annesso formalmente alla Francia. Alla Rocca ora sventolavano i vessilli di Parigi, ma si sa che il vento politico cambia spesso direzione a scapito del popolo che è costretto ad improvvisi adattamenti, spesso seguiti da strascichi poco piacevoli o addirittura dolorosi.
Il 24 aprile del 1814, Pio VII riprendeva possesso del potere temporale e iniziava la restaurazione. La Rocca di Paolo III tornava nelle mani del Papa ancora per qualche decennio. I fatti del 1831 non ebbero conseguenze sconvolgenti a Perugia e la vita continuò come prima per il fallimento scontato di una sommossa improvvisata, senza coordinamento e ancora minore strategia. Più consistente sembrò il terremoto politico del 1848 che rovesciò il regime pontificio e instaurò la Repubblica Romana. In questo frangente qualcuno intravide la fine dei governi nati dalla restaurazione viennese, tanto che il processo politico in atto fu ritenuto irreversibile e incominciarono ad abbattersi le prime picconate demolitrici sul monumento paolino. Ma i tempi erano prematuri ed ancora una volta le armi francesi abbatterono il neonato regime popolare. Strana logica della politica estera, troppo spesso affetta da fisiologica incoerenza: la piccola Repubblica Romana veniva strangolata dall’unica grande repubblica esistente in Europa, quella francese di Napoleone III.
Ma ormai iniziava il decennio di preparazione. Il 14 settembre 1860 le truppe piemontesi di Fanti facevano il loro ingresso a Perugia. Questa volta non c’era spazio per tornare indietro. La grande fortezza perugina non fece in tempo ad ospitare i vessilli del tricolore italiano e il furore degli abitanti scaricò su di essa tutta la rabbia di antiche frustrazioni, ultimando l’opera di demolizione. La prima picconata, infatti, era stata già sferrata dal Gonfaloniere Benedetto Baglioni il 13 dicembre 1848, ma i rivolgimenti politici non consentirono, allora, di completare l’impresa e al nobile perugino non fu possibile vendicare l’esproprio gratuito dei terreni e dei palazzi che la storica famiglia possedeva sul Colle Landone.
Su quel colle oggi troneggia Palazzo Arienti, il Palazzo della Provincia che ospita anche la Prefettura. Ma questa è un’altra storia.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del