Pochi giorni dopo, quest’ultimo fu nominato gonfaloniere (il termine “sindaco” non era ancora di moda) e con questo titolo amministrò la città fino alla primavera successiva, succedendo al marchese Alessandro Antinori.
Il commissario Pepoli era coadiuvato dal marchese Filippo Gualterio di Orvieto che diventerà il primo prefetto della provincia di Perugia (dicembre 1860), la più estesa d’Italia, comprendente Terni, Rieti, Orvieto e la Sabina.
Intanto si stava preparando il plebiscito sull’annessione, fissato per il 5 e il 6 di novembre. I Vescovi umbri si erano mobilitati alla grande invitando i fedeli e gli elettori a votare “No”, ma una parte del clero non era d’accordo e storceva la bocca. Tra l’altro correva voce che anche un paio di cardinali del Sacro Collegio non fossero convinti della bontà del potere temporale del Papa. Don Leone Farinelli, parroco di Collestrada, aggredì le rampe di San Girolamo alla testa di un plotone di parrocchiani, sventolando il tricolore e con in testa un vistoso cappello di carta su cui era scritto “Si”. Quando lo videro in piazza della Fontana Maggiore, i Perugini andarono in visibilio, lo issarono sulle spalle volando per le scale della Vaccara, come alla festa dei Ceri, fin dentro la Sala dei Notari, dove era il seggio. Da quello scomoda posizione don Leone, che doveva essere un tipo atletico e contorsionista, riuscì a fare il suo dovere di elettore e ad infilare la scheda nell’urna. Qualcosa del genere avvenne poco dopo con don Giovanni Ghirga.
E’ comprensibile che il Vescovo Pecci masticasse amaro nel vedere i pastori in combutta col gregge e corse ai ripari pretendendo il ricorso alla disciplina con una pubblica ritrattazione da parte dei preti ribelli. Alcuni si rifiutarono ed incapparono nella massima sanzione canonica; altri 15 aderirono al richiamo vescovile e subirono una raffica di esercizi spirituali confezionati per la circostanza.
E’ difficile stabilire con precisione quanti fossero gli aventi diritto al voto nella regione. Gli elettori ufficiali erano 128mila su una popolazione di circa 772mila abitanti. Non esistevano documenti di identità e chi si presentava votava. Tanto il risultato era scontato e non si correva il pericolo di grossi brogli. Per gli analfabeti fu difficile distinguere il “Si” dal “No”, ma venne in soccorso la zoologia che orientò gli sprovveduti verso la “serpolina”.
Il quesito era così formulato: “Volete far parte della Monarchia Costituzionale di Vittorio Emanuele?” A Perugia i voti favorevoli furono 10.338 e 38 quelli contrari. Sull’intera regione 97.040 contro 380 (0,39%) voti papalini. Si contarono anche 205 schede nulle che i commentatori dell’epoca attribuirono agli anarchici. La proclamazione dei risultati avvenne il 9 novembre.
E’ interessante notare quanto il governo pontificio fosse poco rimpianto. In Toscana, ad esempio, contro i 330mila voti favorevoli all’annessione, 14mila (4,2%) erano andati al Granduca. Ai temporalisti nostrani più accaniti, che qualche decennio dopo riapparvero in città, queste cifre avrebbero dovuto suggerire qualcosa.
Dopo il plebiscito, Pepoli si occupò dei sacerdoti scomunicati rimasti senza sostentamento e assegnò loro una pensione mensile di 60 lire. Tra questi don Natale e don Giovanni Severini di Sigillo, don Felice Pieraccini di Pozzuolo, Don Giuseppe Maria Pico di Perugia e altri ancora. Furono assegnate 60 lire anche al canonico Alfonso Brizi di Città della Pieve, che la mattina del plebiscito aveva celebrato la messa in duomo invocando i lumi dello Spirito Santo sui votanti e provocando la pronta rampogna del vescovo mons. Foschini.
Altri sacerdoti furono aiutati in modo diverso, come il dottissimo Adamo Rossi, figura di spicco nella cultura perugina, nominato bibliotecario dell’Augusta finché non perse il posto nel 1885 a causa della clamorosa vicenda del “Cicerone rubato”.
Il 17 dicembre Vittorio Emanuele II firmò il decreto che dichiarava l’Umbria provincia e parte integrante del regno. Il Comune di Perugia annunciò l’evento il 31 dicembre con un proclama in cui si esortavano maliziosamente i Perugini a “muovere al tempio per ringraziare il Dio della Giustizia”. Era l’ultimo giorno dell’anno e la Cattedrale di San Lorenzo doveva rimanere aperta per il solenne “Te Deum” di ringraziamento tradizionale che il vescovo ed il clero avrebbero cantato con la stessa fede di sempre, ma con minore entusiasmo. Alla cerimonia era presente anche il sindaco Danzetta e numerosi altri Perugini gongolanti. L’animo dei presenti si divideva in sentimenti opposti e dal cielo sarà partito un sorriso ammiccante verso il sindaco di Perugia finalmente italiana, mentre al futuro Papa della “Rerum novarum” qualche grillo consolatore avrà sussurrato che la Chiesa sarebbe stata più libera ed autorevole ora che il suo Capo non aveva in testa la corona da Re.
Sulle vie della città e sui campi echeggiava un festoso e martellante ritornello, inneggiante alla fine del potere temporale dei papi. Erano i versi di un poeta anonimo sulla bocca di tutti in quei giorni: “Fior di viole,/ sapete la ragion delle bandiere?/ E’ ito il Temporale e spunta il sole./ Il Temporale non fa più paura./ Non è sparito ancor ma poco dura.”
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del 20 marzo 2006)