Ettore Franceschini

Le elezioni amministrative del 3 ottobre 1920 videro il trionfo dei socialisti anche a Perugia. Si trattò di una vittoria dal respiro corto poiché due opposti pericoli minacciavano la stabilità e la sopravvivenza della prima amministrazione comunale di sinistra. Da un lato l’imminente congresso di Livorno che avrebbe messo a nudo le lacerazioni interne al PSI e ne avrebbe ufficializzato la scissione; dall’altro l’acutizzarsi delle intimidazioni fasciste che fecero la loro prima apparizione in città all’indomani della chiusura del congresso, il 24 gennaio 1921. A Livorno c’era anche Ettore Franceschini (30 agosto 1889 – 9 dicembre 1960) rappresentante della frazione unitaria (Serrati), che guidava la delegazione umbra.
Era stato eletto sindaco di Perugia il 18 ottobre 1920, ma le sue preoccupazioni, e quelle degli altri delegati, al Teatro Goldoni, erano tutte rivolte alle dinamiche interne al partito e non ai pericoli che potevano venire dagli “agitatori borghesi”, tanto che la parola “fascismo” dai congressisti fu pronunciata solo dieci volte in un’assise che durò una settimana piena.
A Perugia la sezione del Fascio di Combattimento si costituì ufficialmente il 24 febbraio 1921 e il primo bersaglio nel mirino fu proprio l’amministrazione comunale rossa. Gli attacchi incominciarono con accanita insistenza e nel giro di un mese ottennero l’effetto sperato. Il 24 marzo in piazza Vittorio Emanuele II, il professor Alfredo Misuri arringava i camerati chiedendo le dimissioni dell’amministrazione comunale. Era il primo segnale esplicito inviato al sindaco e al prefetto che abitava nel palazzo di fronte. Nei giorni successivi i tentativi demolitori continuarono e cominciò il martellamento delle delegazioni inviate in prefettura per chiedere lo scioglimento della Giunta rossa e la nomina di un commissario. Il prefetto tergiversava non trovando motivi sufficienti per giustificare la decisione di dimissionare un’assemblea democraticamente eletta, o non avendo ancora indicazioni precise da Roma. Ma il 26 marzo, un altro comizio nella stessa piazza ribadiva la richiesta mentre saliva le scale della prefettura l’ennesima delegazione con le dimissioni scritte e firmate di tutti i consiglieri comunali di minoranza. Furono lanciati avvertimenti minacciosi al sindaco, nel caso si fosse recato in Comune, e sotto le finestre di casa sua ogni notte le urla, gli schiamazzi e i motteggi (le famose “serenate” che i fascisti riservavano agli avversari presi di mira), gli rinfrescavano la promessa del manganello e rendevano fastidiosa la sua presenza anche ai vicini di casa. Il 4 maggio si tenne un altro raduno numeroso nella solita piazza e una delegazione, guidata dal professor Alfredo Misuri in persona, si recò dal prefetto per esigere lo scioglimento dell’amministrazione comunale. Dal momento che l’incontro si dilungava, la folla dei dimostranti spazientita si diresse verso il Comune e un gruppo di squadristi penetrò all’interno occupando i locali, mentre la pattuglia degli agenti incaricati di presidiare l’edificio faceva ala al loro passaggio. Il gesto eloquente anticipava la decisione concordata in prefettura. Poco dopo, per fugare ogni dubbio, arrivò la delegazione di Misuri che parlò ai presenti schierati in religioso silenzio. Quando annunciò che il prefetto, ritenute giuste e legittime le richieste dei dimostranti, aveva deciso di sciogliere l’amministrazione comunale e di inviare un commissario prefettizio fin dal giorno successivo, la folla esplose in un grido di gioia.
Per la verità il progetto originale dei fascisti era molto diverso, come ricorda Ettore Franceschini nel suo libro “Ricordi di un vecchio socialista”. Fortunatamente il piano fu sventato, evitando un possibile spargimento di sangue, poiché il questore Bertini, “uomo dal doppio gioco, ma che non voleva le cose troppo rumorose”, tempestivamente avvertito, arrestò l’individuo che portava in una valigetta la bomba destinata ad essere lanciata da una finestra del Comune nel giorno del mercato.
Quel grido di giubilo della piazza segnò la fine della prima amministrazione socialista di Perugia e anticipò la scomparsa di altre libertà individuali e collettive che nel giro di poco tempo sarebbero state prese di mira.
Franceschini rimase alla guida del Comune per circa sei mesi. Riuscì solo a presentare il suo programma, ma in un lasso di tempo tanto breve sarebbe poco serio parlare di opere incisive realizzate. Ebbe solo la possibilità di diventare il simbolo di un potere legittimo deposto dalla violenza degli avversari e dalla pusillanimità di organi e apparati dello Stato asserviti a logiche di parte.
Al suo posto subentrò il commissario prefettizio Silvio Ghidoli fino al 1923, quando le nuove elezioni videro l’ascesa di Oscar Uccelli seguito da altri esponenti del PNF che con il titolo di podestà (Giovanni Buitoni, Colombo Corneli e Giulio Agostini) ressero il Comune per tutto il ventennio.
La figura e l’opera di Franceschini vennero illustrate da valenti relatori in un convegno che il Comune di Perugia organizzò il 13 dicembre dell’anno 2000, per commemorare l’ottantesimo anniversario della vittoria municipale delle sinistre. Senza enfasi retorica, emerse un quadro pacato e oggettivo del personaggio e della situazione politica in cui operò il giovane sindaco che veniva dalla Camera del Lavoro. Il massimalismo trionfalistico, a volte declamato con espressioni imprudenti, era tipico delle Giunte di sinistra in quel periodo. Le enunciazioni programmatiche in alcuni casi sembravano dettate dal soviet che aveva conquistato il Palazzo d’Inverno e si riducevano a sterili fughe in avanti in contrasto con l’ordinamento vigente, le tradizioni e la storia. Franceschini non fu immune dal contagio, anche se nel discorso programmatico ebbe l’accortezza di sottolineare che la conquista del Comune non poteva essere la panacea ai problemi che affliggevano i lavoratori. Pagò i suoi ideali durante il ventennio con sacrifici e privazioni pesanti. Fu condannato a cinque anni di domicilio coatto, scontato prima a Favignana e poi a Lipari. Rimase sempre nel mondo della politica con ruoli di secondo piano anche nell’Italia repubblicana e in seguito alla scissione di Palazzo Barberini si schierò nelle file di Saragat. Morì il 9 dicembre 1960, ma a Perugia se ne accorsero in pochi.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del 29 maggio 2006)