
Le drammatiche vicende del 20 giugno perugino cominciarono sei giorni prima. Il corso era gremito di gente che si infittiva nei pressi del Palazzo dei Priori, quando alle undici di martedì 14 giugno 1859, una delegazione salì le scale per incontrare il delegato apostolico, monsignor Giordani. Il gruppo era composto da Francesco Guardabassi, Zefferino Faina, Tiberio Berardi, Nicola Danzetta e Carlo Bruschi.
Il monsignore non amava i colpi di testa, consapevole che con i 500 militi della guarnigione avrebbe combinato ben poco e aveva chiesto istruzioni al cardinale Antonelli. La risposta fu di temporeggiare e, in caso di mala parata, rifugiarsi a Città della Pieve o ad Orvieto. Intanto stavano partendo da Roma 2.000 svizzeri per ripristinare l’ordine in città.
La trattativa non lasciò margini di mediazione poiché Guardabassi dichiarò subito che Perugia voleva essere italiana. Il delegato, che cercava di prendere tempo mentre dalla finestra scrutava il Corso e sentiva gli slogans poco rassicuranti arrivare fino lassù, si rivolse al colonnello Friggeri, comandante del manipolo dei pontifici, chiedendogli se fosse in grado di reprimere il tumulto. La domanda non ebbe risposta perché Guardabassi lo avvertì che all'ufficiale non sarebbe stato possibile uscire dal palazzo. A questo punto monsignor Giordani decise di lasciare Perugia, scortato e munito di regolare salvacondotto.
La risposta arrivò il 20 giugno. I 2.000 mercenari svizzeri annunciati da Giacomo Antonelli, il cardinale che non disse mai messa, arrivarono puntuali. La ricostruzione fedele dei fatti risulta difficile perché ognuna delle due parti li raccontò dal suo punto di vista, con sfumature enfatiche e calcolate omissioni. L’anno successivo, Gioacchino Pepoli incaricò il magistrato romagnolo Ravegnani di stendere una minuziosa relazione su quegli avvenimenti, ma il prezioso documento, di certo più attendibile delle contrapposte versioni, non si trova nell’Archivio di Stato, mentre esistono le note di spesa relative al lavoro.
Con certezza non tornarono i conti ai membri del Governo Provvisorio che speravano sul verificarsi di tre condizioni: l’insurrezione di altre città dell’Umbria e delle Marche; l’arrivo di aiuti dalla Toscana per compensare gli 800 giovani perugini partiti volontari per il nord; l’intervento dei Piemontesi. Arrivarono solo 400 fucili e tanta solidarietà.
In città intanto la situazione si faceva critica perché a difendere le mura si presentarono 600 generosi, armati di fucili da caccia da contrapporre ai cannoni di Schmidt.
L’esiguo numero fu diviso in cinque gruppi, inviati alle varie porte. Fu presidiata anche Porta Sant’Angelo per prevenire un’eventuale manovra aggirante delle truppe svizzere che salivano da Ponte San Giovanni. I difensori avevano il vantaggio delle mura, ma quel centinaio (Schmidt dirà 5.000) che presidiava la zona del Frontone con fucili ad avancarica e schioppi da caccia, era ben poca cosa di fronte all’armamento più efficiente e ai duemila mercenari in prevalenza svizzeri, ma anche tedeschi, albanesi e 65 italiani aggregatisi a Foligno. La distanza tra le porte, inoltre, non rese celere lo spostamento dei patrioti, una volta sicuri che lo sfondamento era concentrato al Frontone. La resistenza intorno agli orti del convento benedettino, iniziata alle tre del pomeriggio, durò un paio d’ore, poi alcuni “volteggiatori” riuscirono a violare le mura. I difensori si attestarono dietro Porta San Pietro per l’ultimo scontro, dove persero la vita Castellani e Gaspari e venne ferito Giuseppe Danzetta, mentre il fratello Nicola stava arrivando a Torino per sollecitare l’intervento.
Ormai la città era in mano agli svizzeri che poterono dare sfogo agli istinti più biechi lungo il tragitto dell’orrore che dal Frontone sale a Corso Vannucci. In giro non c’era un’anima viva; le famiglie si erano tappate in casa, ma i colpi di fucile sulle serrature erano il segno che gli uomini dell’orda stavano entrando. Saccheggi, violenze, rapine, implorazioni per aver salva la vita in cambio degli averi, caratterizzarono il copione di quel drammatico pomeriggio. Nemmeno il prezzo pagato placò le brame fameliche. Il fabbro Passerini e la moglie furono uccisi dopo aver sborsato i loro risparmi. Più tardi, Giuseppe Porta, il segretario comunale che avanzava alla testa dei rappresentanti del Comune, sventolando un panno bianco in segno di resa di una città già prostrata, cadde crivellato di colpi. Quando la soldataglia arrivò al Corso deserto, distrusse le uniche forme di vita incontrate: due persone che passavano senza riparo a battaglia finita, un aquilotto in gabbia accanto alla porta di una bottega e il cane Sciampagna, la mascotte dei negozi del centro.
Ci fu anche un caso in cui la furia devastatrice giocò un brutto tiro. La Locanda di Francia faceva angolo in fondo alle scale di Sant’Ercolano. Dal tetto piovvero alcuni coppi, non si sa se dovuti ai cecchini o a gente che cercava di nascondersi. Un gruppo di soldati fece irruzione nell’albergo uccidendo il proprietario Storti mentre si sforzava di spiegare che c’erano solo ospiti stranieri. Non sazi spararono al cameriere Genovesi e allo stalliere Bindocci e siccome i due non si decidevano a morire, li finirono gettandoli dalla finestra. Salirono ai piani alti e trovarono Edward Newton Perkins con la moglie, due amiche di lei e la figlia di una di queste, la signorina Cleveland, tutti di nazionalità americana. Furono fatti inginocchiare con i fucili puntati e solo grazie ad una trattativa laboriosa e all’idioma straniero riuscirono a comprare la vita. Il giorno dopo erano in viaggio per Firenze da dove Perkins informò Stockton, il rappresentante diplomatico americano a Roma, chiedendo il rimborso dei tremila scudi pagati come prezzo della salvezza, mentre la Cleveland inviava dettagliate informative al “Times” di Londra. Antonelli irrise la richiesta, ma in presenza della minaccia di tornarsene in patria e della solidarietà dimostratagli da tutto il Corpo Diplomatico, cambiò atteggiamento. Intanto il giornale inglese riferiva i fatti, gettando discredito sul governo pontificio. Fu richiesto un rapporto segreto e più veritiero sugli avvenimenti che Schimdt, promosso generale per via telegrafica, aveva descritto a modo suo, inducendo Pio IX a proclamare solennemente che le stragi di Perugia erano “immaginarie e menzognere”. Ai lutti e ai saccheggi, si univa così anche la ferita del negazionismo.
Le violenze dovevano aver superato ogni limite se l’arcivescovo Pecci decise di intervenire imponendo a Schmidt il suono della ritirata per porre fine alla brutalità della truppa. Il bilancio di quel pomeriggio è dato dai numeri: 26 morti, molti feriti, 39 arresti, numerose case e negozi incendiati sul fronte dei patrioti. Più difficile è il calcolo dei caduti tra i papalini per divergenti interessi: i difensori tendevano a minimizzare la cifra per far apparire ancora più impari l’impari lotta, mentre dall’altra parte si tacevano le perdite per nascondere la scarsa efficienza della truppa mercenaria. Ma alle dieci bare che ebbero funerali solenni in duomo, secondo cronisti affidabili, vanno aggiunti altri duecento nominativi mancanti all’appello del giorno dopo, che perirono sotto le mura del Frontone o disertarono alle prime fucilate. In quelle due ore, i difensori avevano lottato come leoni.
Qualche giorno dopo, Stockton ricevette un plico contenente tremila scudi, senza lettera di trasmissione. Meglio non lasciare tracce alla storia.
Qualcuno ha scritto che l’esercito piemontese occupò l’Umbria e le Marche in seguito ai fatti del 20 giugno. Se l’ipotesi fosse fondata sarebbe il modo migliore per rendere onore a quei morti.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 15 giugno 2007)
Il monsignore non amava i colpi di testa, consapevole che con i 500 militi della guarnigione avrebbe combinato ben poco e aveva chiesto istruzioni al cardinale Antonelli. La risposta fu di temporeggiare e, in caso di mala parata, rifugiarsi a Città della Pieve o ad Orvieto. Intanto stavano partendo da Roma 2.000 svizzeri per ripristinare l’ordine in città.
La trattativa non lasciò margini di mediazione poiché Guardabassi dichiarò subito che Perugia voleva essere italiana. Il delegato, che cercava di prendere tempo mentre dalla finestra scrutava il Corso e sentiva gli slogans poco rassicuranti arrivare fino lassù, si rivolse al colonnello Friggeri, comandante del manipolo dei pontifici, chiedendogli se fosse in grado di reprimere il tumulto. La domanda non ebbe risposta perché Guardabassi lo avvertì che all'ufficiale non sarebbe stato possibile uscire dal palazzo. A questo punto monsignor Giordani decise di lasciare Perugia, scortato e munito di regolare salvacondotto.
La risposta arrivò il 20 giugno. I 2.000 mercenari svizzeri annunciati da Giacomo Antonelli, il cardinale che non disse mai messa, arrivarono puntuali. La ricostruzione fedele dei fatti risulta difficile perché ognuna delle due parti li raccontò dal suo punto di vista, con sfumature enfatiche e calcolate omissioni. L’anno successivo, Gioacchino Pepoli incaricò il magistrato romagnolo Ravegnani di stendere una minuziosa relazione su quegli avvenimenti, ma il prezioso documento, di certo più attendibile delle contrapposte versioni, non si trova nell’Archivio di Stato, mentre esistono le note di spesa relative al lavoro.
Con certezza non tornarono i conti ai membri del Governo Provvisorio che speravano sul verificarsi di tre condizioni: l’insurrezione di altre città dell’Umbria e delle Marche; l’arrivo di aiuti dalla Toscana per compensare gli 800 giovani perugini partiti volontari per il nord; l’intervento dei Piemontesi. Arrivarono solo 400 fucili e tanta solidarietà.
In città intanto la situazione si faceva critica perché a difendere le mura si presentarono 600 generosi, armati di fucili da caccia da contrapporre ai cannoni di Schmidt.
L’esiguo numero fu diviso in cinque gruppi, inviati alle varie porte. Fu presidiata anche Porta Sant’Angelo per prevenire un’eventuale manovra aggirante delle truppe svizzere che salivano da Ponte San Giovanni. I difensori avevano il vantaggio delle mura, ma quel centinaio (Schmidt dirà 5.000) che presidiava la zona del Frontone con fucili ad avancarica e schioppi da caccia, era ben poca cosa di fronte all’armamento più efficiente e ai duemila mercenari in prevalenza svizzeri, ma anche tedeschi, albanesi e 65 italiani aggregatisi a Foligno. La distanza tra le porte, inoltre, non rese celere lo spostamento dei patrioti, una volta sicuri che lo sfondamento era concentrato al Frontone. La resistenza intorno agli orti del convento benedettino, iniziata alle tre del pomeriggio, durò un paio d’ore, poi alcuni “volteggiatori” riuscirono a violare le mura. I difensori si attestarono dietro Porta San Pietro per l’ultimo scontro, dove persero la vita Castellani e Gaspari e venne ferito Giuseppe Danzetta, mentre il fratello Nicola stava arrivando a Torino per sollecitare l’intervento.
Ormai la città era in mano agli svizzeri che poterono dare sfogo agli istinti più biechi lungo il tragitto dell’orrore che dal Frontone sale a Corso Vannucci. In giro non c’era un’anima viva; le famiglie si erano tappate in casa, ma i colpi di fucile sulle serrature erano il segno che gli uomini dell’orda stavano entrando. Saccheggi, violenze, rapine, implorazioni per aver salva la vita in cambio degli averi, caratterizzarono il copione di quel drammatico pomeriggio. Nemmeno il prezzo pagato placò le brame fameliche. Il fabbro Passerini e la moglie furono uccisi dopo aver sborsato i loro risparmi. Più tardi, Giuseppe Porta, il segretario comunale che avanzava alla testa dei rappresentanti del Comune, sventolando un panno bianco in segno di resa di una città già prostrata, cadde crivellato di colpi. Quando la soldataglia arrivò al Corso deserto, distrusse le uniche forme di vita incontrate: due persone che passavano senza riparo a battaglia finita, un aquilotto in gabbia accanto alla porta di una bottega e il cane Sciampagna, la mascotte dei negozi del centro.
Ci fu anche un caso in cui la furia devastatrice giocò un brutto tiro. La Locanda di Francia faceva angolo in fondo alle scale di Sant’Ercolano. Dal tetto piovvero alcuni coppi, non si sa se dovuti ai cecchini o a gente che cercava di nascondersi. Un gruppo di soldati fece irruzione nell’albergo uccidendo il proprietario Storti mentre si sforzava di spiegare che c’erano solo ospiti stranieri. Non sazi spararono al cameriere Genovesi e allo stalliere Bindocci e siccome i due non si decidevano a morire, li finirono gettandoli dalla finestra. Salirono ai piani alti e trovarono Edward Newton Perkins con la moglie, due amiche di lei e la figlia di una di queste, la signorina Cleveland, tutti di nazionalità americana. Furono fatti inginocchiare con i fucili puntati e solo grazie ad una trattativa laboriosa e all’idioma straniero riuscirono a comprare la vita. Il giorno dopo erano in viaggio per Firenze da dove Perkins informò Stockton, il rappresentante diplomatico americano a Roma, chiedendo il rimborso dei tremila scudi pagati come prezzo della salvezza, mentre la Cleveland inviava dettagliate informative al “Times” di Londra. Antonelli irrise la richiesta, ma in presenza della minaccia di tornarsene in patria e della solidarietà dimostratagli da tutto il Corpo Diplomatico, cambiò atteggiamento. Intanto il giornale inglese riferiva i fatti, gettando discredito sul governo pontificio. Fu richiesto un rapporto segreto e più veritiero sugli avvenimenti che Schimdt, promosso generale per via telegrafica, aveva descritto a modo suo, inducendo Pio IX a proclamare solennemente che le stragi di Perugia erano “immaginarie e menzognere”. Ai lutti e ai saccheggi, si univa così anche la ferita del negazionismo.
Le violenze dovevano aver superato ogni limite se l’arcivescovo Pecci decise di intervenire imponendo a Schmidt il suono della ritirata per porre fine alla brutalità della truppa. Il bilancio di quel pomeriggio è dato dai numeri: 26 morti, molti feriti, 39 arresti, numerose case e negozi incendiati sul fronte dei patrioti. Più difficile è il calcolo dei caduti tra i papalini per divergenti interessi: i difensori tendevano a minimizzare la cifra per far apparire ancora più impari l’impari lotta, mentre dall’altra parte si tacevano le perdite per nascondere la scarsa efficienza della truppa mercenaria. Ma alle dieci bare che ebbero funerali solenni in duomo, secondo cronisti affidabili, vanno aggiunti altri duecento nominativi mancanti all’appello del giorno dopo, che perirono sotto le mura del Frontone o disertarono alle prime fucilate. In quelle due ore, i difensori avevano lottato come leoni.
Qualche giorno dopo, Stockton ricevette un plico contenente tremila scudi, senza lettera di trasmissione. Meglio non lasciare tracce alla storia.
Qualcuno ha scritto che l’esercito piemontese occupò l’Umbria e le Marche in seguito ai fatti del 20 giugno. Se l’ipotesi fosse fondata sarebbe il modo migliore per rendere onore a quei morti.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 15 giugno 2007)