IL MONUMENTO A GARIBALDI

L’anno era cominciato male e il 2 febbraio gli strilloni urlavano per le vie di Perugia il titolo di apertura dell’edizione straordinaria de “L’Unione Liberale”: “Ultimi telegrammi sullo scontro in Africa”. Si trattava di un’espressione edulcorata per riguardo al Governo, ma il testo diceva senza equivoci che la colonna De Cristoforis di 500 uomini era stata massacrata, il 25 gennaio a Dogali dagli uomini del ras Ulula, mentre portava soccorsi al forte Saati. I Perugini sobbalzarono perché il 6° Fanteria di stanza in città aveva inviato un contingente. Come avviene in simili casi, le notizie arrivarono con il contagocce, ma alla fine si seppe che quaranta soldati erano morti e tra loro anche tre ufficiali di Perugia, Cuomo, Fusi e Dessy. Il clima si riscaldò perché “La Provincia” di Rocchi, contraria all’avventura africana fin dall’inizio, non lesinava critiche alla difesa d’ufficio fatta dal giornale liberale e i clericali temporalisti, sinceri nel dolore del lutto, speravano che i rovesci italiani in politica estera potessero rimettere in discussione l’assetto unitario. La cerimonia funebre che venne celebrata in Duomo fu eloquente: sul catafalco non c’era la bandiera tricolore e alle proteste dei liberali furono opposte motivazioni puerili. La situazione rimase tesa per alcuni mesi e quando si stava normalizzando ci pensò il monumento a Garibaldi a riaccendere gli animi.
Correva l’anno 1887. Repubblicani e democratici avevano costituito un Comitato presieduto da Leopoldo Tiberi per celebrare la memoria dell’Eroe a ottanta anni dalla nascita e cinque dalla morte. I liberali fecero buon viso all’iniziativa, pur nutrendo segrete riserve; ma non potevano opporsi alla celebrazione delle gesta di un artefice dell’unità nazionale. I clericali, invece, sfoderarono la strategia delle scelte più opportune, tipica di chi vuole boicottare una proposta senza avversarla apertamente. Sostennero, cioè, che era meglio erigere due monumenti, uno al Perugino e l’altro a Baldo degli Ubaldi, il giureconsulto, invece di osannare un signore morto da paco e la cui fama “chissà se avrebbe durato”.
La cerimonia dell’inaugurazione era fissata per il 20 settembre, ma fin dalla primavera iniziarono i lavori di ripavimentazione della piazza. Furono tolte le tettoie che sporgevano dal palazzo di Giustizia, fu abbattuta la vecchia colonna che sorreggeva il lampione, venne demolita la fontana. Mancavano pochi giorni alla celebrazione e tutto era pronto, tranne il piedistallo sul quale doveva essere collocato il Garibaldi dello Zocchi e si dovette improvvisare una soluzione di ripiego allestendo un basamento di legno, tela e gesso. La cerimonia fu imponente e le frizioni tra repubblicani e democratici da una parte e liberali dall’altra trasudavano a fior di pelle. Il nutrito corteo dei partecipanti si mosse da Borgo San Pietro, ripercorrendo la strada dei mercenari di Schmidt e riempì la piazza che da quel giorno sarebbe stata intitolata all’Eroe. Le fanfare di tutta l’Umbria si alternarono nei loro repertori migliori e l’inno di Garibaldi fece da ritornello all’armonioso spettacolo. Tra il silenzio generale, parlò il sindaco liberale Tiberio Berardi e poi l’oratore ufficiale, l’onorevole Edoardo Pontano, unico deputato democratico umbro in Parlamento. Alla fine del rito si tornò a San Pietro per il pranzo allestito nei tre chiostri dell’Abbazia per duemila invitati. L’uscita di ogni portata dalle cucine veniva salutata da squilli di tromba, come se si trattasse di ufficiali superiori alla testa delle loro unità. Il pranzo non divise nessuno, ma i discorsi si. Non esistendo ancora i sistemi tecnici per diffondere un unico intervento, se ne tennero tre, uno per chiostro. Qualche parola sopra le righe, anche per l’euforia del banchetto, sfuggì agli oratori poiché nel chiostro d’onore, dove prese la parola Pontano, i liberali tornarono a casa e lo stesso successe nell’altra postazione durante il discorso di Maiocchi che aveva combattuto con Garibaldi a Calatafimi. In serata, al gran ballo dei Filedoni, mentre Perugia si trasformava in uno spettacolo di luci, il presidente del Comitato Tiberi mancò, con numerose altre personalità del suo gruppo.
Intanto “l’eroe dei due mondi” dominava la piazza e l’espressione imbronciata, voluta da Cesare Zocchi, gli stava a pennello perché il generoso ed onesto combattente ricordava le grandezze e le miserie del passato: l’alba dell’unità nazionale, la scarsa gratitudine dei governi liberali verso i suoi artefici, la voracità di alcuni collaboratori, gli intrallazzi dei cortigiani, la morte di Anita, il matrimonio sbagliato con la marchesina Giuseppina Raimondi iniziato nel ridicolo e finito tra le polemiche, l’artrite che lo torturò fin da giovane, e tanti altri episodi che vide e coprì. Ma la sua collocazione troppo vicina ai “pensatoi” lo metteva a disagio. Lì accanto, superata una fila di palazzi, c’era il laboratorio liberale che occupava il Comune e poco più avanti la residenza vescovile. Tutta roba da cui girare alla larga. Meglio lasciarla a chi aveva maggiore dimestichezza con il “pensiero”; lui era un uomo di azione e non aveva niente a che fare con i giochi diplomatici e con quella stradina intitolata a Mazzini che pretendeva di unire due mondi distanti.
Fu così che dopo pochi decenni, caricato il piedistallo buono, scese dal colle e si insediò tra la folla, in un groviglio di strade, dove passava tanta gente del popolo, con le spalle rivolte a Roma e ai palazzi del potere locale. A ricordargli per due terzi il tricolore italiano, c’erano almeno i semafori. Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 22 giugno 2007)