
Gli Etruschi edificavano le loro città sopra due colli, l’uno soggetto all’altro, e nella conca intermedia la ragnatela delle abitazioni trasformava l’altura in un popoloso alveare. Qualcosa di simile successe a Perugia nei punti più alti dell’acropoli. Non sappiamo come si chiamassero allora i picchi di Porta Sole e del Colle Landone che rappresentavano le due estremità del colle lunato.
Quando gli Etruschi vi misero piede, trovarono già il popolo degli Umbri da tempo insediato sulla parte più alta del colle e l’abbondanza di acqua, testimoniata dal monumentale pozzo esistente anche oggi, conferma che la scelta del luogo fu felicissima non solo per ragioni difensive, ma anche per una sopravvivenza tranquilla, assicurata dal bene primario e abbondante di una risorsa idrica potabile.
I nuovi arrivati, dopo aver regolato i conti in maniera più o meno pacifica con i primi inquilini, si preoccuparono di dare alla città un presidio difensivo sicuro, recintando la zona con un massiccio baluardo di pietra. Nacque così la prima cinta delle solide mura etrusche, che partendo da Porta Sole si snodava lungo i dirupi del colle per dirigersi verso il Verzaro, la Cupa, il rione di Porta Eburnea e risalire sulla sommità del Colle Landone per riannodarsi al punto di partenza, costeggiando il precipizio del Sopramuro. Il saliscendi continuo del possente anello che cingeva il nucleo originario dei primi abitanti è in parte visibile anche oggi con le sue caratteristiche intatte, mentre altri tratti furono interrati o nascosti dalle stratificazioni degli interventi successivi. Si tratta di un’opera ciclopica, costituita da enormi macigni di pietra perfettamente squadrati e incastrati a secco, che in alcuni punti raggiungeva i nove metri di altezza e uno spessore adeguato, perché quel popolo faceva le cose sul serio e “costruiva per l’eternità”, secondo la felice espressione del Bonazzi. Gli scoscendimenti, le continue sporgenze e rientranze delle mura per assecondare la natura del suolo, fornirono la posizione ideale per colpire gli assedianti nelle sacche di concentramento con il lancio dei giavellotti, ma limitarono anche l’espansione urbanistica che sarebbe stata maggiore e più rapida in una zona pianeggiante o con minori asperità morfologiche.
Lungo il perimetro delle due miglia di mura, erette a difesa dei quarantamila abitanti, si aprivano sette porte che gareggiavano tra loro in eleganza architettonica e solidità difensiva. La Pulcra e la Marzia si imponevano su tutte le altre. La prima, oggi più nota con il nome di Arco Etrusco, allora non poteva appropriarsi di un aggettivo che apparteneva all’intera città, e nel corso dei secoli si chiamò in vari modi (Porta Tezia, Arco di Augusto, Porta Borca, Porta Vecchia, Arco Trionfale). Anche oggi rappresenta uno degli scorci caratteristici di Perugia e parla il linguaggio affascinante di un popolo straordinario e creativo. Al di sopra dell’arco, a doppio giro di conci, si può leggere la scritta posticcia “Augusta Perusia” e “Colonia Vibia” (forse perché una famiglia Vibia vi esercitò il predominio durante il periodo imperiale, ma la questione è controversa).
La Porta Marzia, dalla parte opposta, mantiene solo i connotati delle origini; l’incastonamento nel perimetro della Rocca Paolina le fecero perdere i particolari di contorno, che sulla vetta del Colle Landone dovevano essere imponenti e maestosi. Anch’essa al di sopra dell’arco reca la stessa iscrizione della Pulcra. Le altre Porte si aprivano in ordine sparso lungo le mura, come la Cornea o Berarda (oggi di Sant’Ercolano), la Eburnea o della Mandorla, la Luzia o Trasimena (più tardi di San Luca), quella del Sole (più tardi dei Gigli) e l’ultima, di cui si ignora il nome, situata all’imbocco di via dei Calderari, oggi via Alessi, che verrà “smontata” nel 1540 per fare da ingresso alla Rocca Paolina.
Intorno al 150 d.C., sotto il pacifico imperatore Antonino Pio, le mura e le porte etrusche furono sottoposte ad un radicale restauro con l’aggiunta di archi di vedetta sopra i fornici originali e con la costruzione della “controporta” (una seconda porta retrostante a quella esterna).
L’opera di restauro riprese nel XIII secolo. Le Porte Trasimena, Cornea, Eburnea, del Sole e quella che sarà distrutta nel 1540, a capo del Sopramuro, vennero ritoccate nella parte superiore e l’arco a tutto sesto fu sostituito con quello acuto. E’ questa la stagione delle torri erette dalle famiglie patrizie a fianco dei loro palazzi. I cronisti dicono che Perugia ne contava settanta, tanto da meritarsi il titolo di “Turrena”. Oggi è rimasta solo quella degli Sciri; le altre sono scomparse, nonostante le severissime norme che ne vietavano la demolizione, compresa la scomunica che Papa Sisto IV fulminò nel 1476 contro i violatori del divieto.
Ma ad un papa che difendeva il patrimonio urbanistico ne seguì un altro di opposte vedute e Paolo III, una settantina di anni dopo, per costruire la Rocca sul Colle Landone sbriciolò metà dell’acropoli, radendo al suolo ventisei torri, nove chiese, due conventi, centotrentotto edifici tra case dei poveri e palazzi dei ricchi, oltre al “trasferimento” dell’imponente arco etrusco di via dei Calderai e allo scapitozzamento del campanile di San Domenico alto 120 metri. Delle torri resta una “fotografia” abbastanza fedele in una sala del Palazzo dei Priori, affrescata da Benedetto Bonfigli per commemorare la vita di Sant’Ercolano.
Nel 1200, Perugia fu pervasa dal desiderio di innovazioni radicali e volle dimostrarlo anche nel nome cambiando il suono dolce di “Perusia” con quello più duro ed arcigno di “Peroscia”. L’espansione urbanistica era cresciuta oltre i limiti della primitiva cinta per cui venne costruito il secondo anello di mura, ampliato nel XIV secolo, e ancora un terzo ed ultimo anello realizzato nel secolo successivo.
La dilatazione delle mura incorporò molte zone verdi per assicurare un minimo di sopravvivenza in caso di assedio. Le nuove mura di pietrame cementato, si distinsero dal ciclopico muraglione etrusco che rimase sulla cresta dell’acropoli a ricordare le antiche origini, pronto ad accogliere gli abitanti in caso di cedimento della cerchia più esterna. Alle sette porte iniziali se ne aggiunsero numerose altre che portavano il nome del santo venerato nella chiesa vicina. Così si ebbe Porta Sant’Angelo, Sant’Antonio (per la quale passarono le truppe piemontesi nel 1859), Santa Margherita, San Costanzo, San Girolamo, San Cataldo, San Prospero, Santa Susanna, San Pietro, lo Sperandio, delle Volte, dei Ghezzi, dei Vibi, del Castellano, dell’Elce, del Bulagaio, di Monteluce, del Piscinello, della Conca. Le caratteristiche architettoniche si ripetevano senza grande originalità. Solo alcune di esse, ristrutturate in tempi successivi, divennero interessanti sotto il profilo artistico, come la rinascimentale Porta San Pietro, una delle più belle d’Italia, e quella di San Costanzo, di San Girolamo e la Crucia.
Il definitivo assetto murario, a forma di foglia d’edera, delimitò anche i cinque rioni storici cittadini: Porta Sant’Angelo, San Pietro (o Romana), Santa Susanna (Porsusanna), Porta Eburnea (Borgna o Bornia o Crucia o della Mandorla) e Porta Sole (o dei Gigli), cui vennero accorpate, per contiguità geografica, le terre del contado “sommesse” nel XIII secolo
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 8 giugno 2007)
Quando gli Etruschi vi misero piede, trovarono già il popolo degli Umbri da tempo insediato sulla parte più alta del colle e l’abbondanza di acqua, testimoniata dal monumentale pozzo esistente anche oggi, conferma che la scelta del luogo fu felicissima non solo per ragioni difensive, ma anche per una sopravvivenza tranquilla, assicurata dal bene primario e abbondante di una risorsa idrica potabile.
I nuovi arrivati, dopo aver regolato i conti in maniera più o meno pacifica con i primi inquilini, si preoccuparono di dare alla città un presidio difensivo sicuro, recintando la zona con un massiccio baluardo di pietra. Nacque così la prima cinta delle solide mura etrusche, che partendo da Porta Sole si snodava lungo i dirupi del colle per dirigersi verso il Verzaro, la Cupa, il rione di Porta Eburnea e risalire sulla sommità del Colle Landone per riannodarsi al punto di partenza, costeggiando il precipizio del Sopramuro. Il saliscendi continuo del possente anello che cingeva il nucleo originario dei primi abitanti è in parte visibile anche oggi con le sue caratteristiche intatte, mentre altri tratti furono interrati o nascosti dalle stratificazioni degli interventi successivi. Si tratta di un’opera ciclopica, costituita da enormi macigni di pietra perfettamente squadrati e incastrati a secco, che in alcuni punti raggiungeva i nove metri di altezza e uno spessore adeguato, perché quel popolo faceva le cose sul serio e “costruiva per l’eternità”, secondo la felice espressione del Bonazzi. Gli scoscendimenti, le continue sporgenze e rientranze delle mura per assecondare la natura del suolo, fornirono la posizione ideale per colpire gli assedianti nelle sacche di concentramento con il lancio dei giavellotti, ma limitarono anche l’espansione urbanistica che sarebbe stata maggiore e più rapida in una zona pianeggiante o con minori asperità morfologiche.
Lungo il perimetro delle due miglia di mura, erette a difesa dei quarantamila abitanti, si aprivano sette porte che gareggiavano tra loro in eleganza architettonica e solidità difensiva. La Pulcra e la Marzia si imponevano su tutte le altre. La prima, oggi più nota con il nome di Arco Etrusco, allora non poteva appropriarsi di un aggettivo che apparteneva all’intera città, e nel corso dei secoli si chiamò in vari modi (Porta Tezia, Arco di Augusto, Porta Borca, Porta Vecchia, Arco Trionfale). Anche oggi rappresenta uno degli scorci caratteristici di Perugia e parla il linguaggio affascinante di un popolo straordinario e creativo. Al di sopra dell’arco, a doppio giro di conci, si può leggere la scritta posticcia “Augusta Perusia” e “Colonia Vibia” (forse perché una famiglia Vibia vi esercitò il predominio durante il periodo imperiale, ma la questione è controversa).
La Porta Marzia, dalla parte opposta, mantiene solo i connotati delle origini; l’incastonamento nel perimetro della Rocca Paolina le fecero perdere i particolari di contorno, che sulla vetta del Colle Landone dovevano essere imponenti e maestosi. Anch’essa al di sopra dell’arco reca la stessa iscrizione della Pulcra. Le altre Porte si aprivano in ordine sparso lungo le mura, come la Cornea o Berarda (oggi di Sant’Ercolano), la Eburnea o della Mandorla, la Luzia o Trasimena (più tardi di San Luca), quella del Sole (più tardi dei Gigli) e l’ultima, di cui si ignora il nome, situata all’imbocco di via dei Calderari, oggi via Alessi, che verrà “smontata” nel 1540 per fare da ingresso alla Rocca Paolina.
Intorno al 150 d.C., sotto il pacifico imperatore Antonino Pio, le mura e le porte etrusche furono sottoposte ad un radicale restauro con l’aggiunta di archi di vedetta sopra i fornici originali e con la costruzione della “controporta” (una seconda porta retrostante a quella esterna).
L’opera di restauro riprese nel XIII secolo. Le Porte Trasimena, Cornea, Eburnea, del Sole e quella che sarà distrutta nel 1540, a capo del Sopramuro, vennero ritoccate nella parte superiore e l’arco a tutto sesto fu sostituito con quello acuto. E’ questa la stagione delle torri erette dalle famiglie patrizie a fianco dei loro palazzi. I cronisti dicono che Perugia ne contava settanta, tanto da meritarsi il titolo di “Turrena”. Oggi è rimasta solo quella degli Sciri; le altre sono scomparse, nonostante le severissime norme che ne vietavano la demolizione, compresa la scomunica che Papa Sisto IV fulminò nel 1476 contro i violatori del divieto.
Ma ad un papa che difendeva il patrimonio urbanistico ne seguì un altro di opposte vedute e Paolo III, una settantina di anni dopo, per costruire la Rocca sul Colle Landone sbriciolò metà dell’acropoli, radendo al suolo ventisei torri, nove chiese, due conventi, centotrentotto edifici tra case dei poveri e palazzi dei ricchi, oltre al “trasferimento” dell’imponente arco etrusco di via dei Calderai e allo scapitozzamento del campanile di San Domenico alto 120 metri. Delle torri resta una “fotografia” abbastanza fedele in una sala del Palazzo dei Priori, affrescata da Benedetto Bonfigli per commemorare la vita di Sant’Ercolano.
Nel 1200, Perugia fu pervasa dal desiderio di innovazioni radicali e volle dimostrarlo anche nel nome cambiando il suono dolce di “Perusia” con quello più duro ed arcigno di “Peroscia”. L’espansione urbanistica era cresciuta oltre i limiti della primitiva cinta per cui venne costruito il secondo anello di mura, ampliato nel XIV secolo, e ancora un terzo ed ultimo anello realizzato nel secolo successivo.
La dilatazione delle mura incorporò molte zone verdi per assicurare un minimo di sopravvivenza in caso di assedio. Le nuove mura di pietrame cementato, si distinsero dal ciclopico muraglione etrusco che rimase sulla cresta dell’acropoli a ricordare le antiche origini, pronto ad accogliere gli abitanti in caso di cedimento della cerchia più esterna. Alle sette porte iniziali se ne aggiunsero numerose altre che portavano il nome del santo venerato nella chiesa vicina. Così si ebbe Porta Sant’Angelo, Sant’Antonio (per la quale passarono le truppe piemontesi nel 1859), Santa Margherita, San Costanzo, San Girolamo, San Cataldo, San Prospero, Santa Susanna, San Pietro, lo Sperandio, delle Volte, dei Ghezzi, dei Vibi, del Castellano, dell’Elce, del Bulagaio, di Monteluce, del Piscinello, della Conca. Le caratteristiche architettoniche si ripetevano senza grande originalità. Solo alcune di esse, ristrutturate in tempi successivi, divennero interessanti sotto il profilo artistico, come la rinascimentale Porta San Pietro, una delle più belle d’Italia, e quella di San Costanzo, di San Girolamo e la Crucia.
Il definitivo assetto murario, a forma di foglia d’edera, delimitò anche i cinque rioni storici cittadini: Porta Sant’Angelo, San Pietro (o Romana), Santa Susanna (Porsusanna), Porta Eburnea (Borgna o Bornia o Crucia o della Mandorla) e Porta Sole (o dei Gigli), cui vennero accorpate, per contiguità geografica, le terre del contado “sommesse” nel XIII secolo
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 8 giugno 2007)