PIETRO ARETINO

Quando Cristoforo Colombo scopriva l’America senza saperlo, ad Arezzo nasceva Pietro senza volerlo. Era figlio di un calzolaio e di una popolana tutta casa e chiesa ma lui, con poco rispetto verso quella povera donna, sostenne sempre e con orgoglio di essere il figlio bastardo di un nobile. Così non conosciamo il suo vero cognome e la penna più velenosa del Rinascimento è passata alla storia come Pietro Aretino.
Aveva dodici anni quando fuggì da casa e andò a Perugia, la città che all’inizio del 1500 pullulava di artisti. Pietro si mise subito all’opera come apprendista pittore, tanto per fare qualcosa. I suoi studi erano affrettati e approssimativi, ma si sa che i toscani della zona del Chianti nascono rimatori felici e polemisti vigorosi, come il vino che producono da quelle parti, e Pietro più che ai maestri doveva essere grato alla natura e alla geografia per quel geniaccio che si portava dietro.
Dopo un breve soggiorno a Perugia, prese a vagabondare per l’Italia facendo i più strani mestieri: il cantante a Vicenza, il lavapiatti a Bologna, il facchino in altre città e conducendo una vita scostumata tanto da avere serie noie con la giustizia ed essere condannato per tre mesi ai remi. Solo nel 1516 trovò un po’ di pace, quando fu assunto come cameriere dal nobile romano Agostino Chigi. A questo periodo risalgono le sue prime satire su argomenti lascivi, espresse con un linguaggio da taverna che gli attirarono l’attenzione dell’aristocrazia cittadina ed in particolare quella del gaudente Papa Leone X della famiglia Medici di Firenze, un suo vicino di casa. Al Papa piacevano quei versi immediati e spontanei, anche se sboccacciati e pieni di doppi sensi, e lo assunse a corte con un ruolo ambiguo che oscillava tra il poeta e il buffone. Una bella vita, non c’è dubbio, che si addiceva al “nobile bastardo”, privato dalla sorte del blasone del suo ignoto genitore. La pacchia durò solo tre anni perché nel 1521 Leone X morì e, come capitava spesso in quel tempo, il successore fu scelto per contrapposizione nella persona di un austero e ascetico monaco, Adriano Florensz di Utrecht, che prese il nome di Adriano VI. Il Rigoletto della corte papale fuggì a gambe levate non sapendo come si sarebbe comportato un papa che usciva dal rigore monastico e con grande prudenza decise di girare alla larga in attesa di tempi migliori. Questi arrivarono presto perché il santo papa morì dopo appena due anni e i cardinali elessero al soglio pontificio un altro Medici che prese il nome di Clemente VII. L’Aretino sentiva di nuovo spirare aria di famiglia. Bastò una poesia piena di elogi per il neo eletto e fu richiamato alla corte papale anche se ci fu chi, ferito dalla sua penna e dal suo comportamento, cercò di metterlo in cattiva luce. Arrivò la bufera, ma poi tornò il sereno perché la nuova sdolcinata ode che il poeta scrisse in onore di Clemente VII fu più convincente di ogni altro argomento. E poi quella lingua era meglio tenersela amica piuttosto che lasciarla in balia delle onde o regalarla agli avversari. Correvano tempi felici in cui bastavano pochi versi per aggraziarsi i potenti; oggi per ottenere gli stessi risultati bisogna architettare un lungo e complesso impianto di prosa.
L’Aretino aveva vinto. Il Papa lo nominò cavaliere e gli assegnò una pensione da nababbo tanto che poté allestire una favolosa casa e circondarsi di donne, buffoni e parassiti. Era al colmo della fama e mentre tutta la nobiltà romana se lo contendeva, Lutero in Germania si rodeva il fegato dalla rabbia pensando a come venivano spesi i soldi delle indulgenze.
Ma i suoi nemici non si erano rassegnati. Uno poi era particolarmente agguerrito e si trattava di un personaggio potente, Giovanni Matteo Giberti, il datario del Papa che decise di ucciderlo. In un caldo pomeriggio romano del luglio 1525, mentre il poeta attraversava la città a cavallo, gli si avvicinò il carnefice che lo disarcionò e gli piantò due coltellate nel petto. La lama ebbe paura di essere corrosa e non penetrò molto a fondo tanto che, dopo qualche settimana, l’Aretino era più battagliero di prima. L’attentato divenne il tema dominante nei salotti dell’aristocrazia romana e il processo ingigantì la popolarità del poeta. Tutti erano convinti che ad armare la mano dell’attentatore fosse stato il Giberti, compreso il Papa, che però ne prese le difese con la massima fermezza. E fu la rottura definitiva con la corte papale e l’ambiente romano.
Ripresero le peregrinazioni per la penisola e per un certo periodo la velenosa penna di Pietro si stabilì a Lodi dove era accampato Giovanni dalle Bande Nere. Tra il condottiero e il poeta si stabilì un’amicizia disinteressata e l’Aretino rimase al capezzale dell’amico, che morirà poco dopo per le ferite riportate in battaglia. Arrivò l’approdo nella libera e ospitale Venezia del doge Andrea Gritti, dove venne accolto a braccia aperte, preceduto da una fama molto apprezzata nella cosmopolita e festaiola città. Gritti gli concesse un vitalizio favoloso e un bel palazzo sul Canal Grande; Tintoretto gli decorò i soffitti; Sebastiano del Piombo, Bronzino e Vasari gli affrescarono le pareti e Tiziano gli fece il ritratto. L’Aretino era il personaggio più amato e temuto del momento. Gli intitolarono anche il canale dove si affacciava il suo palazzo e Aretina fu chiamata una razza di cavalli in attesa di un nome.
Intanto “Ragionamenti”, la sua opera più nota, andava a ruba e i predicatori che l’additavano al pubblico ludibrio nelle chiese ne moltiplicarono smisuratamente le vendite. I protagonisti dell’opera sono ruffiani e prostitute che discutono argomenti facilmente immaginabili da cui emerge un’umanità laida e corrotta, piena di baldracche, magnaccia e invertiti. L’Aretino si vendicava. L’ambiente descritto, infatti, è quello romano, dominato dalla corte papale, e il linguaggio, consono ai temi trattati, sa di tanfo e di lupanare, come quello delle commedie “Talenta”,” La Cortigiana” e dei “Sonetti lussuriosi”.
Le Lettere invece hanno un altro tono. Qui l’autore elogia, minaccia, adula, insulta, lusinga e ricatta a seconda del risultato che vuole raggiungere che poi è sempre quello di spillare denaro. Chiedeva soldi a tutti, fissando anche la cifra, e chi si rifiutava di pagare andava incontro a denigrazioni e calunnie. Andò avanti di questo passo per anni, senza alcun ritegno e senza alcun principio, in una totale assenza di valori.
Verso il 1550 gli si spuntò la penna e la lingua divenne pesante. Il poeta era al tramonto e senza quattrini. Per completare i ruoli di una vita dissipata si mise a fare il moralista e si scandalizzò nel 1547 alla vista del Giudizio Universale di Michelangelo. Tutti quei casti nudi lo turbavano e chiese al Papa di coprirli, lui che aveva intercalato ogni tre o quattro parole dei suoi scritti con le espressioni più triviali con cui si indicavano gli attributi e le funzioni del sesso maschile e femminile.
La grande casa sul Canal Grande, abbellita da affreschi famosi, non c’era più e il poeta si era ridotto a vivere in un modesto alloggio di periferia, senza essere ricercato o temuto. Allora pensò di rivolgersi alla misericordia di Dio che nell’ottobre del 1556 lo volle con sé, dopo il ritorno al conforto della fede.
L’Aretino è il documento vivente dell’assenza di ogni valore in un’epoca che, se si eccettua l’affermazione dell’uomo come creatività e autonomia, di valori ne ebbe pochi. Rappresentò il piacere, l’aspetto più comune del Rinascimento, e una serie di contraddizioni macroscopiche che andavano di moda nel periodo in cui erano ancora freschi i consigli che Machiavelli aveva elargito al suo Principe. Incarnò tutti i vizi che denunciava negli altri, morì in grazia di Dio come non era mai vissuto, fu moralista e licenzioso a seconda della convenienza, usò la lusinga e il ricatto in funzione dello scopo che voleva raggiungere. La sua morte coincise con la fine di un’epoca e di una morale. E bisogna ammettere che non difettò di tempismo nel lasciare questo mondo proprio quando arrivava la morsa della Controriforma. Forse fu un rogo risparmiato.
Un epitaffio attribuito al Giovio lo presentò così: “Qui giace l’Aretin, poeta tosco; / di tutti disse mal fuorché di Cristo / scusandosi col dir: Non lo conosco!”
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del 18 luglio 2005)