I BENEDETTINI DI SAN PIETRO

A Perugia correvano voci insistenti che nel tragico pomeriggio del 20 giugno 1859 i Francescani di Moneteripido e i Domenicani di Corso Cavour avessero sparato sui patrioti in fuga dalla città, diretti a Cortona. Forse si trattava di esagerazioni. Ma l’anno dopo, a Porta Santa Margherita, qualche fucilata contro i Piemontesi da San Domenico partì davvero.
I Benedettini di San Pietro, invece, si comportarono diversamente ed entrarono nel cuore dei Perugini, tanto che è difficile scorgere i contorni precisi della storia e della leggenda, come capita in tutte le nobili gesta affidate alle saghe dei popoli. Ma nel 1966, il diario di un anonimo monaco benedettino mise al loro posto i vari tasselli del mosaico del 20 giugno.
Nel tumultuoso trambusto di quel pomeriggio in cui gli svizzeri di Schmidt sparavano a vista contro chiunque si trovasse per strada, quattro patrioti riuscirono a penetrare nella cella di padre Stefano Pascali chiedendo protezione. Il cuore benedettino, fedele alla massima del santo fondatore “ora et labora”, più che alle vicende politiche e alle mire temporaliste del papato, privilegiò la carità e non si tirò indietro. Sfidando il pericolo della vita, padre Stefano nascose i quattro in una cella e fermò i soldati inseguitori, un po’ con il prestigio della propria autorità e un po’ col concedere loro quello di cui disponeva. Alla sera, mentre i mercenari avvinazzati e alticci per aver scoperto le cantine del monastero, girovagavano in tutto il convento di cui erano diventati padroni e schiamazzavano sotto i portici del chiostro, padre Stefano scese tra loro con i clandestini in abiti monastici; entrò nella grande chiesa ormai buia; salì la scaletta infossata nel muro e li nascose dietro le canne dell’organo. Qui rimasero acquattati da quel lunedì fino al mercoledì successivo, senza cibo né acqua, sfuggendo ai minuziosi controlli e alle ispezioni che i soldati di tanto in tanto ripetevano in tutti i locali. Tra i quattro c’era anche un settantenne e le esigenze dello stomaco obbligarono uno di loro, Cimbelli Agostini, a scendere dal nascondiglio con un mazzo di candele sotto braccio, e a sfidare i soldati di guardia nella chiesa. Attraversò il chiostro gremito di mercenari distratti e si diresse verso il centro, mentre gli altri tre, tra cui Mariano Guardabassi, rimasero in attesa tra le canne dell’organo.
Appena fuori, Agostini organizzò i soccorsi per liberare gli amici e in quella occasione fu informato anche l’Abate Acquacotta, fino ad allora all’oscuro di tutto. Si riuscì a far entrare i viveri per i rifugiati e nella mattinata di venerdì, mentre la truppa era adunata nel chiostro per ricevere il soldo, i tre furono calati con la corda di una campana da un balcone seminascosto nel retro della chiesa. La fuga fu provvidenziale per tutti, perché poco dopo Schmidt ordinò una perquisizione a tappeto, mirando diritto alle canne dell’organo. A fare la soffiata sembra sia stata una prostituta che gironzolava da qualche giorno in quei paraggi, non per devozione a San Pietro, ma in ossequio alla più elementare legge economica secondo la quale, quando la domanda supera l’offerta, si vende più cara la merce.
L’anno dopo, il Commissario Pepoli, nel firmare i decreti di soppressione delle Congregazioni religiose e di passaggio dei beni al demanio, si ricordò dell’aiuto che i Benedettini avevano offerto ai quattro patrioti e fece aggiungere al decreto che i bravi monaci potevano restare nel loro convento e goderne i beni “sino a che saranno ridotti a un numero minore di tre”. La condizione si realizzò il 6 febbraio 1890 quando morì il terzultimo monaco, che era anche l’Abate del monastero.
Il Governo già si era mobilitato per l’indemaniamento del patrimonio e aveva inviato uno dei suoi funzionari più scrupolosi e diligenti a stilare l’inventario. L’incaricato governativo fu tanto zelante e preciso che nella lista inventariale, dopo essere entrato nella cella dell’Abate, tra le altre cose annotò: “Un letto con morto.”
Il patrimonio dei Benedettini era enorme poiché oltre al monastero ed altri immobili in città, includeva la grande tenuta agraria di oltre duemila ettari a Casalina. Le istituzioni perugine (Comune e Provincia) si mossero per tempo affinché quelle proprietà non finissero nelle mani dello Stato che le avrebbe vendute ai privati, realizzando ricavi modesti ed innescando ardite manovre speculative, come era già successo in altre situazioni simili in Umbria. Monastero, tenuta agraria e colonia agricola, che ospitava duecento ragazzi, dovevano rimanere pubblici, nelle mani del Comune, della Provincia o di qualche altro ente appositamente istituito. La colonia agricola, divenuta ormai un collegio di correzione, doveva riappropriarsi della originaria caratteristica di centro formativo agrario in una regione che traeva le proprie risorse dai campi e in uno Stato in cui esistevano solo due grandi scuole ad indirizzo agrario, a Napoli e a Milano. Ma a differenza di questi due istituti che non avevano terreni per il tirocinio, la tenuta di Casalina era una palestra eccezionale che si poteva prestare a soggiorni didattici anche per gli studenti di altre parti d’Italia. Un elemento importante e innovativo era riposto nel fatto che si voleva attivare un indirizzo enologico, precorrendo di molti decenni una specializzazione oggi diventata importante traguardo culturale ed economico sulle nostre colline. Sarebbe interessante poter dare un’occhiata ai piani di studio, ammesso che se ne possa trovare una traccia.
Il sindaco Tiberio Berardi e l’onorevole Cesare Fani si impegnarono al massimo per sottrarre al loro destino i beni dei Benedettini ed ebbero successo. La legge 10 luglio 1887 (Legge Fani), in attesa della morte del terzultimo monaco, costituì il patrimonio in “Ente Morale Autonomo”, sotto la diretta autorità dello Stato, destinato al mantenimento dell’istruzione agraria. Fu un primo passo importante perché era stato riconosciuto il vincolo di destinazione, sventando il pericolo di lottizzazione e di vendita. L’insediamento dell’Ente e la nomina del Consiglio di Amministrazione, che avrebbe dovuto organizzare la scuola, avvennero il 25 luglio 1895 e il 3 novembre dell’anno successivo ci fu l’inaugurazione dell’Istituto Agrario, alla presenza del ministro dell’Agricoltura Francesco Guicciardini.I piccoli episodi spesso cambiano il corso della storia. Se i quattro patrioti, in quell’ormai lontano 20 giugno 1859, non si fossero affidati alla protezione di padre Stefano, oggi il patrimonio benedettino risulterebbe sbriciolato in mano ai privati e forse non sarebbe sorta la prestigiosa Facoltà di Agraria.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del