Il VESCOVO IL TRENO E L’ASSASSINO

La mattina del 18 agosto 1892 i muri di Foligno apparvero tappezzati da centinaia di manifesti che incominciavano così: “Le società popolari attendono che la salma di monsignor Federici scenda nel sepolcro per protestare nel migliore dei modi legali contro le infami insinuazioni…” Il giorno avanti, “La Gazzetta di Foligno”, un giornale clericale uscito in edizione straordinaria, aveva addossato l’assassinio del prelato ai soliti “settari”. Riferimento esplicito e diretto non a particolari individui, ma ad un’area politica facilmente individuabile.
La nascita del partito socialista era alle porte. Ma già nelle periferie urbane e nelle campagne aleggiava il mito della riscossa che faceva presa tra la povera gente, organizzata in gruppi e “società” variamente denominate. Il massimalismo verboso e il linguaggio ardito non difettavano in simili ambienti e nelle celebrazioni del primo maggio di pochi mesi prima si era cantato a squarciagola: “Dinamite a chi è ingrassato/ col sudor dell’affamato./ Il Borghese, il Prete il Re/ salteranno tutti e tre./ E facciam saltare in fondo/ ogni angolo del mondo!/ Dinamitiam, dinamitiam…”
Il foglio cattolico si riferiva proprio ai “settari” di questo tipo, e la morte del vescovo, con frettolosa anticipazione, sarebbe stata opera di quella propaganda. Le “società popolari”, ancora non organizzate in partito, risposero in maniera risentita e immediata, comunicando di aspettare la sepoltura della vittima prima di inscenare una vibrante protesta, espressa in modo “legale”, a dispetto degli slogans e degli inni di sapore anarcoide.
Federico Federici, il vescovo di Foligno, era nato il 21 dicembre 1844 ad Agugliano, un piccolo centro vicino ad Ancona, dove il padre svolgeva la professione di medico condotto; aveva completato gli studi in un collegio romano e si era fatto prete. Per la vastità della cultura e la robusta preparazione teologica, fu scelto come docente di filosofia nel seminario di Ancona, attività che svolse fino alla nomina episcopale, avvenuta nel 1888. Aveva 44 anni ed era uno dei vescovi più giovani d’Italia. Il 16 di agosto tornava da Montecatini dove aveva passato un paio di settimane per le cure termali. A Terontola era salito sul treno che lo doveva condurre a Foligno. La linea Terontola-Foligno dal 1875 era diventata una bretella secondaria di collegamento su cui viaggiavano solo convogli locali, avendo perso il ruolo di spina dorsale del traffico tra il nord ed il sud svolto in precedenza, quando non esisteva lo sbocco Chiusi-Orte. I viaggiatori erano pochi e le carrozze non disponevano dei corridoi interni di comunicazione. Solo nelle grandi tratte erano unite tra loro da passaggi a mantice. Il dispositivo di allarme verrà introdotto nel 1893.
Monsignor Federici viaggiava in prima classe ed un collaboratore della sua segreteria in terza. Alla stazione di Assisi il treno sostò. Erano le 10 di sera ed il segretario andò a chiedere al prelato se avesse bisogno di qualcosa. Lo trovò tranquillo, intento a leggere un libro. Solo. Il treno, ormai prossimo al capolinea, era quasi vuoto. Il delitto si consumò poco dopo la partenza dalla stazione di Assisi. L’assassino, Annibale Poggioni, un giovane fabbro di Tuoro, stava acquattato da qualche parte in attesa di fare irruzione nella carrozza di prima classe dove viaggiavano i più danarosi. Quando vide il vescovo solo, capì che era arrivata l’occasione propizia per realizzare il progetto criminale, senza eccessivi rischi anche per un debuttante alla prima rapina come era lui. Alla Corte di Assise dirà di “aver bisticciato col vescovo” e non mentiva, dal suo punto di vista, poiché alla richiesta di consegnare il denaro e gli oggetti personali di valore, il prelato avrà certamente opposto un netto rifiuto. Senza frapporre indugi, il fabbro si avventò contro la sua vittima con una ferocia crudele, resa più accanita dal fatto che il giovane vescovo si difese con tutte le energie. La quantità e la natura dei colpi denotano una furia devastante, spiegabile solo come conseguenza di una colluttazione furibonda.
Il delitto fruttò settanta lire e l’orologio che il prelato portava con sé. Non fu toccata la croce pettorale d’oro, forse per rispetto del sacro, per istintiva superstizione o per la difficoltà di giustificarne il possesso, dal momento che un oggetto simile non si trova di solito tra gli arnesi di un fabbro. Poi, approfittando di un momento in cui il treno rallentava, saltò dal finestrino.
Alla stazione di Foligno ci si accorse del crimine e le indagini partirono a ritmo serrato. Gli agenti ebbero anche un po’ di fortuna perché l’assassino, nel saltare dal treno, si era ferito ad una gamba e il sangue sulla scarpata indicò la pista da seguire. Poggioni si fermò alla prima casa cantoniera per medicarsi, inventando una storia qualunque, poi camminando lungo i binari arrivò in mattinata a Perugia. Bussò ad un’altra casa cantoniera per una nuova medicazione e riprese il cammino per Tuoro, ma il suo viaggio finì a Ellera. Qui stanco e indebolito per il sangue perduto, si presentò ad una terza casa cantoniera, ma ormai i carabinieri avevano intuito le sue mosse e lanciato l’allarme. Il cantoniere di Ellera si insospettì, ma era solo in casa e non poteva avvisare nessuno. Con una scusa banale chiamò un ragazzino del posto e lo spedì ad avvisare i carabinieri di Castel del Piano, mentre si prodigava per medicare la ferita e far riposare l’omicida. L’arrivo dei carabinieri concluse la fuga del Poggioni e le manette scattarono nella tarda mattinata del 17 agosto. Fu un’operazione brillante, conclusa poche ore dopo il delitto, tenendo conto che “le pantere” in dotazione alle caserme di allora si chiamavano biciclette.
Era passato appena un mese dall’arresto del giovane fabbro quando ebbe luogo il processo dinanzi alla Corte d’Assise di Perugia. Non bastò la difesa appassionata di Francesco Innamorati per scagionare il ragazzo, condannato all’ergastolo. La pena di morte era stata abolita dal codice Zanardelli appena tre anni prima.
Roberto Sciurpa
(pubblicato su Corriere dell'Umbria del