CARDUCCI APERUGIA

Nel mese di giugno del 1876 Carducci si trattenne alcuni giorni a Speleto per una visita ispettiva nel liceo di quella città. Pur non essendo ancora famoso, era già molto noto, tanto che ad attenderlo alla stazione si presentarono 25 carrozze, tutte repubblicane. Il poeta amava i piaceri del mondo e non disdegnava momenti di svago, anche per alleggerire la monotonia del lavoro ispettivo, noioso e burocratico per un tipo estroverso e creativo come lui. In marzo, poi, era caduta la “destra storica” e sebbene l’Italia restasse rigorosamente monarchica, con Depretis al Governo qualcosa si stava muovendo. Motivo in più per festeggiare il tutto con una buona cena a base di trote in un ristorantino di Pissignano. Il posto era bello e non distante; si trovava a meno di un’ora di carrozza dalla città, in una specie di stupenda terrazza sopra “Le Vene del conte Campello”. Il nome aveva un saporaccio per i palati repubblicani perché Campello era senatore del Regno, uno “scelto” del Re, ma le trote erano squisite e l’intenzione era di mangiare quelle, e non altro. Carducci non immaginava di fare un dispetto al senatore, cancellandolo dal secolare toponimo per far posto a un dio dimenticato. Poco dopo, infatti, “Le Vene di Campello” sarebbero diventate “Le Fonti del Clitunno”, dal titolo dell’ode che avrebbe scritto proprio in quella occasione.
Nel pomeriggio del 4 giugno, dunque, da Spoleto partirono un bel gruppo di amici con alla testa il poeta nel pieno vigore dei suoi quarant’anni. A rendere più imponente il volto incorniciato nella foltissima barba, contribuì un abbigliamento elegante: pantaloni bianchi, giacca nera lucida, fascia di seta azzurra intorno alla vita e un vistoso papillon nero al collo della camicia. Prima di fermarsi all’ombra dei salici a contemplare “la saliente vena”, Carducci chiese all’amico Venturini di accompagnarlo all’antico tempietto pagano. Poi sostò a lungo a “Le Vene” ma il tempio lo aveva proiettato indietro nel tempo, tra gli Umbri, gli Etruschi, i Romani, Annibale vincitore di Flaminio vendicato dai valorosi Spoletini, e ancora più oltre nei viali della storia. Il cammino nel passato glorioso veniva di tanto in tanto interrotto dalle immagini fresche e attuali che sfilavano davanti ai suoi occhi, scolpite nell’ode come stupendi rilievi marmorei. Così su quel sereno tramonto di giugno si stagliarono “l’umbro fanciullo che la riluttante pecora ne l’onda immerge”, l’innocente sorriso del poppante “dal viso tondo”, i colori meravigliosi del diaspro e dell’ametista nel gioco delle acque e i “fiori di zaffiro” che “chiamano ai silenzi del verde fondo.” Perle preziose, affidate agli appunti (l’ode verrà scritta tra il 2 luglio e il 21 ottobre) come le informazioni che Venturini gli forniva perché “la marzia Todi” e “Mevania caliginosa” da lì non si vedono.
Vedeva, però, i colli perugini “degradanti in cerchio” e sapeva molte cose su Perugia, così a settembre decise di soggiornare in un alberghetto di via Nuova (oggi Mazzini). Venne in compagnia di Piva ed era più prudente stare alla larga da Spoleto dove lo conoscevano in troppi. Le cronache dicono che una sera fu ospite di Adamo Rossi e ricambiò la cortesia recitando in anteprima “In morte di Napoleone Eugenio” che nessuno conosceva.
Il soggiorno perugino fu certamente apprezzato se l’anno successivo ritornò come presidente della commissione esaminatrice degli esami di maturità classica. Si trattenne tutto il mese di luglio e gran parte di quello di settembre, perché allora gli esami si svolgevano in quel periodo e nella doppia sessione estiva e autunnale. Arrivò di nuovo con la sua bella Lina Piva, ma essendo ormai conosciuto anche a Perugia e avendo l’incarico ufficiale di presiedere la commissione nella più prestigiosa scuola cittadina, ebbe l’accortezza di non portarla nel suo albergo; così lui tornò in quello dell’anno precedente in via Nuova, e lei al Brufani vecchio. Tutti i pomeriggi, solo e pensoso, si sedeva nei giardinetti dietro la Prefettura e scriveva. I soliti maligni, che scrutano i comportamenti umani solo con un certo tipo di lenti, conclusero che doveva essere arrivato ad un buon punto di "cottura" per non staccare gli occhi dal tetto in cui alloggiava la sua fiamma. Poi a gennaio, quando Zanichelli pubblicò “Il canto dell’amore”, si resero conto di avere sbagliato. L’amore c’entrava, ma era un amore universale, un abbraccio a tutte “le genti umane affaticate”, un desiderio di pacificazione che si concludeva con un brindisi alla libertà, cui il poeta invitava anche Pio IX; e per un anticlericale del suo calibro non era cosa da poco. “Il canto dell’amore” entrò nel cuore dei perugini e li rese orgogliosi al pensiero che un antico, e ormai distrutto, monumento del passato avesse dato lo spunto al poeta per lanciare un messaggio di grande respiro nel momento in cui in Italia prendevano il via i conflitti e le lacerazioni sociali.
Le due visite in Umbria avevano regalato due perle alla letteratura italiana, anzi tre, perché “Santa Maria degli Angeli” con la sua cupola, il “pian laborìoso”, “il mite, solitario, alto splendore” di Assisi, in cui troneggia l’immagine di Francesco, non era certo da meno.
Tornerà a Perugia anche l’anno successivo con lo steso incarico. Ormai la città se la portava nel cuore e i Perugini grati lo additavano al suo passaggio. Questa volta la penna rimase muta. Aveva già cantato le glorie di questa terra e lanciato ai posteri messaggi indelebili. Strinse una solida amicizia con Bini Cima e partecipò alla cerimonia della commemorazione di Giancarlo Conestabile, presso l’Università.
Quando la sera del 17 marzo 1907 la notizia della sua morte arrivò a Perugia, un dolore sincero pervase l’animo di tutti e il compianto fu secondo solo a Bologna. Ci fu una solenne commemorazione alla Sala dei Notari e il Consiglio Comunale volle intitolargli i Giardinetti dietro la Prefettura, la culla de “Il canto dell’amore”. Il Grande Vecchio era diventato il simbolo della giovane Nazione e quando il declino gli impedì di esprimere le sue forti energie, si ritirò in un dignitoso silenzio. Agli amici che lo sollecitavano a scrivere rispondeva fiero: “Come voglio non posso, come posso non voglio.” Sintetizzò il tramonto in questo accorato stornello: “Fior tricolore/ tramontano le stelle in mezzo al mare/ si spengono i canti entro il mio cuore.”
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 25 maggio 2007)