L'ODISSEA DEL TRASIMENO


Il primo incontro con quello specchio d'acqua lo facemmo alle elementari quando la maestra ci parlò della battaglia del Trasimeno e dei quindicimila soldati romani trafitti nello scontro fra l’esercito di Flaminio e quello di Annibale. Fu un momento drammatico della seconda guerra punica che vide il cartaginese aggirarsi minaccioso sotto le mura di Roma, risparmiata per motivi che fanno ancora discutere gli storici. Quella battaglia, descritta con puntualità e precisione da Tito Livio che disponeva di ottime fonti, porta alla ribalta dei grandi avvenimenti una buona parte dell’Umbria e ci offre notizie certe sulle caratteristiche del lago nel 217 a.C..
Anche allora le rive erano ricoperte di fitti canneti e lo spessore lamellare delle acque creava qua e là pozze stagnanti, stando all’espressione di Silio Italico: “stagnis Trasimenus opacis”. Il dato più importante, però, è che il livello del lago era sette metri più alto di quello di oggi. Nella carneficina di quel terribile scontro perirono anche 2.500 cartaginesi che, come era nelle tradizioni di quel popolo, Annibale fece ammucchiare in punti diversi per essere bruciati sui roghi. L’astuto condottiero dispose che fossero realizzati gli “ustrini” per eseguire il pietoso rito. Essi consistevano in rudimentali e improvvisate pavimentazioni del terreno sopra le quali vennero poste le salme per la cremazione. Molti di questi posticci pianciti sono venuti alla luce, tutti disposti lungo un tratto rettilineo rispetto al piede dei colli. Il che lascia intendere che quella fosse la linea del bagnasciuga di allora. Del resto sarebbe stato snervante, data la natura dei luoghi, l’ampiezza del fronte e l’entità della strage, trasportare i corpi in luoghi distanti da dove si era verificato l’eccidio. La linea degli ustrini si trova a 266 metri sul livello del mare, a differenza di quella del bagnasciuga attuale che si attesta a 259. E’ possibile, pertanto, che allora gli isolotti fossero quattro, dovendosi aggiungere ai tre oggi esistenti anche il promontorio di Castiglione.
Nei lunghi secoli che seguirono la battaglia del Trasimeno, il lago non fece più notizia se non per la bontà del suo pesce. I perugini ne erano ghiotti e anche i papi non disdegnavano di averlo alla loro mensa. Nel 1285, papa Martino IV morì a Perugia per una indigestione di pesce. Dante, suo contemporaneo, lo sistemò in Purgatorio tra i golosi, dando la colpa della scorpacciata alle anguille di Bolsena e alla vernaccia. Ma essendo a due passi dal Trasimeno, quelle anguille non venivano da tanto lontano. Giulio Mancini, il medico personale di Gregorio XV, nel 1621 gli consigliava le migliori qualità di pesce con queste parole: “Però si eleggerà quello di mare non lasciando la trota e la lampreda del Teverone e qualche tinca e luccio del lago di Perugia.”
Il lago era famoso soprattutto per le “lasche”, un pesce di poco pregio che usurpò una fama immeritata per secoli. Il termine fu usato per motteggiare i perugini e anche oggi resiste al tempo in più di un significato carico di ironia. Le lasche andavano a ruba e nel giorno del giovedì santo costituivano il pasto ufficiale dei papi. Leone X, che era un gran buongustaio, si trattenne per due giorni a Castiglione del Lago per pescarle e mangiarle fresche sul posto, cucinate da cuoche locali.
Fazio degli Uberti descriveva Perugia con i seguenti versi: “Il suo contado ricco lago serra,/ il quale è sì fornito di buon pesce/ che assai ne manda fuor della sua terra..” Il faceto pittore Buonamico, detto Buffalmacco, contemporaneo di Giotto e protagonista di qualche novella del Decamerone, fu protagonista di un simpatico episodio. Il Comune di Perugia lo aveva incaricato di dipingere un Sant’Ercolano. Durante il lavoro, l’artista veniva di continuo infastidito dai soliti “tuttologi”, che abbondano sempre in certi ambienti e, superato il limite dell’umana sopportazione, dopo aver nascosto il quadro vero, se ne andò lasciandone un altro in cui il santo appariva con la testa cerchiata da un’aureola di lasche.
La pescosità del lago si univa all’abbondanza di acqua che nei periodi piovosi dilagava sui campi circostanti, rendendo precari i raccolti. Si rese necessario costruire un emissario, impresa che può suonare delittuosa in tempi di magra come quelli di oggi. L’opera fu realizzata dal grande Braccio Fortebracci da Montone durante il suo breve governo (1416-1424) della città di Perugia. Per essere più precisi, sembra che Braccio ripercorresse le tracce di un antico acquedotto romano di cui ci parla Strabone, che visse a cavallo tra l’era pagana e quella cristiana. Dopo circa millecinquecento anni l’impianto romano era andato distrutto dall’incuria e dal tempo e Braccio fu l’artefice del nuovo canale, detto “la cava del lago”, che da San Feliciano, con un percorso sotterraneo di millecentodiciannove metri, sfociava nel torrente Anguillara e quindi nel Caina in prossimità di Magione, per finire nel Tevere.
L’emissario venne in gran parte ricostruito nel 1894 dal Consorzio del Trasimeno, da poco costituito, per una spesa consistente di 993.910 lire e nel settembre dell’anno successivo, pur non essendo ultimati i lavori, si festeggiò l’avvenimento in gran pompa alla presenza di tre ministri.
Tanta attenzione verso l’emissario testimonia la grande abbondanza di acqua in un bacino senza immissari, alimentato solo dell’acqua piovana. Le cronache sono ricche di episodi di inondazione delle zone circostanti fino a rendere impraticabile la strada di collegamento con Firenze. Nemmeno il caldo e la siccità eccessiva provocavano danni apprezzabili, come successe nel 1611, stando al resoconto dei cronisti. In compenso nell’anno successivo, il freddo siberiano ricoprì il lago di uno spesso manto di gelo e nel 1613 si verificarono piogge straripanti che impantanarono un’ampia campagna. La stagione faceva i suoi bravi capricci anche quando non c’erano i buchi nell’ozono.
Il dibattito che caratterizzò i palazzi del potere e gli organi di informazione del 1800 fu incentrato sul prosciugamento del lago. A tutti i costi si intendeva recuperare un’area per destinarla agli usi agricoli. Come è facile intuire, intorno a questo disegno giravano appetiti voraci ed enormi interessi. La proposta approdò al Consiglio comunale di Perugia il 19 dicembre 1863 e la saggezza prevalse a grande maggioranza. Ma la partita non si chiuse e riaffiorò in numerose altre occasioni, con lo stesso risultato.
Oggi la situazione si è capovolta e il grande occhio azzurro dell’Umbria soffre una grande anemia. Il bacino imbrifero è sempre lo stesso e le precipitazioni si collocano sulle medie del passato, ma sono aumentate le esigenze agricole di attingimento per un’irrigazione intensiva. Un aiuto prezioso sta venendo dalla diga di Montedoglio che alimenta gli impianti irrigui della Val di Chiana. L’allacciamento anche di quelli del Trasimeno costituisce un immissario indiretto che darà un contributo determinante ad una risorsa ambientale da salvare ad ogni costo.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Vivere d'Umbria del 18 maggio 2007)