L'INFELICE AMORE DI PORZIA CORRADI

La brutta storia si svolse durante il carnevale del 1599 e fu a lungo l’argomento preferito dei salotti buoni di Perugia, perché riguardava questioni di corna tra gente perbene. Il clima era quello tetro e austero del Concilio di Trento che, specie negli Stati della Chiesa, si mostrò inflessibile verso ogni forma di sgarro nei confronti della fede e dei costumi.
La fonte piccante del dramma racconta che Roberto Valeriani si era follemente innamorato di Porzia Corradi, una giovane sposa di appena diciassette anni. Il marito, Dionisio Dionigi, era capitano alla corte del cardinale Aldobrandini e si tratteneva a lungo a Roma per motivi di lavoro. A quel posto ci teneva perché il porporato, nipote del papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - nella foto), era uno dei più autorevoli principi della Chiesa. Nei periodi di assenza affidava la tenera moglie al fratello Corrado che abitava in un palazzo nella zona di Santa Lucia. Una sera di carnevale lo spasimante si recò sotto le finestre dell’amata per farle la serenata, in compagnia di due amici, Roberto Ercolani e Astorre Coppoli. Con inattesa sorpresa notò che una porta secondaria del palazzo era aperta e un invito così esplicito a salire non si poteva rifiutare. Coppoli se ne tornò a casa mentre Ercolani si trattenne a fare da palo, pronto a lanciare il concordato segnale in caso di arrivo di Corrado, il cognato di Porzia. I due amanti presero le cose con calma, tanto che il piantone, seduto sullo scalino della casa vicina, si addormentò e venne destato di soprassalto dall’arrivo di Ippolito Roncanelli, il proprietario, che non riusciva a rientrare in casa impedito da Roberto Ercolani sdraiato sulle scale. Pensando al peggio, Roncanelli mise mano alla spada, mentre l’Ercolani insonnolito estrasse la pistola e sparò uccidendo il malcapitato, scambiato per il cognato della giovane donna. Il delitto pose fine all’idillio. Valeriani ed Ercolani corsero a casa di Coppoli informandolo dell’accaduto, mentre Porzia, tra la paura della vendetta del marito e quella di perdere l’amante, prese la decisione più avventata. Invece di tapparsi in casa e far finta di niente, arraffati i denari e i gioielli, raggiunse gli amici, decisa a non separarsi dal suo innamorato. Si dovevano prendere decisioni su due piedi e mentre l’autore dell’omicidio ritenne opportuno rimanere a Perugia, Porzia con l’amante, Coppoli, Ercole Anastasi (un canonico perugino) e tre servitori (Carlo, Giovanni Battista e Sorbolone) si rifugiarono a Grosseto dove Coppoli aveva alcuni poderi. Ma nemmeno all’estero trovarono la tranquillità sospirata perché Dionigi, il moschettiere del cardinale, spinto dai bollori dell’orgoglio ferito più che dal fastidioso prurito delle corna, arrivò nella zona dopo che il cardinale Aldobrandini ebbe ottenuto dallo zio papa un deciso intervento sul duca di Firenze per l’estradizione dei sette ricercati. Il duca, uomo di mondo, che segretamente solidarizzava con i fuggiaschi, consigliò il Coppoli a ritirarsi nella sicura fortezza di Livorno, finché non si fossero calmate le acque. Ma costui disattese il consiglio, e non è chiaro se per paura di un tranello o per evitare al duca ulteriori noie con il Papa. Si rifugiò, invece, con gli amici a Porto d’Ercole che apparteneva ai Presidi Spagnoli. La decisione aveva una sua logica, poiché Ippolito Aldobrandini era stato papabile in ben tre precedenti conclavi, ma non venne mai eletto perché non gradito alla Spagna. Anche nel contrastato conclave del 1592, che seguiva la morte di Innocenzo IX, doveva diventare papa il cardinale Santorio, capo della fazione spagnola; invece, per strani calcoli, riuscì a spuntarla l’Aldobrandini. Coppoli, ben informato su queste vicende, riteneva che il Re di Spagna non avrebbe mai accolto le richieste di un Papa da lui non voluto, ma le regole della politica ignorano la coerenza e molto spesso un favore fatto all’avversario diventa un investimento azzeccato con favolosi ritorni. Il Sovrano spagnolo, infatti, ricevuta la richiesta di estradizione da parte del Papa, con un “bianco segno” (un semplice biglietto), dispose l’arresto dei sette che si trovarono di punto in bianco spediti a Perugia.
Il processo fu una semplice formalità, o meglio una farsa. Tutti e sette vennero ritenuti colpevoli e condannati alla pena di morte. Cinque di essi erano innocenti per essere completamente estranei al fatto e due avevano la sola colpa di aver fatto l’amore. Ma se si dovesse mandare a morte la gente per fatti del genere, nel calcolo statistico verrebbe introdotta una variante che, anche a quei tempi, avrebbe decimato i dati demografici. Una severità simile e una giustizia così approssimativa non possono trovare spiegazione solo nei rigori del Concilio di Trento. Forse ebbe un ruolo decisivo lo spirito di vendetta del marito tradito che, in virtù dell’incarico ricoperto, poté influire sui giudici; forse Clemente VIII volle mettere un freno ai rapimenti delle mogli che in quel periodo erano frequenti a Perugia. Un certo Girolamo Parli aveva rubato la moglie di Felice Perinelli; Marcello Cavaceppi era scappato con quella di Alessandro Montesperelli; e l’elenco potrebbe essere ancora più lungo. Il Papa era convinto che la severità servisse a rinsaldare la fede e i costumi e sgranava sentenze capitali come se fossero acini della corona del rosario. Basti ricordare che l’11 settembre 1599 era stata giustiziata Beatrice Cenci con la mamma e il fratello; il 16 dello stesso mese fra Celestino da Verona; 1l 17 febbraio 1600 Giordano Bruno; e quattro giorni dopo i sette infelici di cui stiamo parlando. E ci fermiamo qui per concomitanza temporale. Il vescovo di Perugia, monsignor Napoleone Comitoli (il cui episcopato, durato 33 anni, fu il più lungo in assoluto) fece del tutto per salvare la giovane e i suoi amici, ma senza successo.
Il giorno dell’esecuzione nella Piazza della Fontana Maggiore si radunò molta gente. Ben otto cappuccini e un numero ancora maggiore di gesuiti sgonnellavano nel rito che accompagnava i condannati al patibolo. I gesuiti in particolare, maestri di dottrina e di stile, cercavano di convincere quegli infelici che per salvare l’anima dovevano andare alla morte contenti. Sicché tutti affrontarono il supplizio con il timore angosciante di compromettere la vita eterna perché non riuscivano a morire allegri. Le prime teste a cadere sotto la mannaia furono quelle del canonico Anastasi e di Coppoli che erano nobili. Gli altri senza titolo, furono impiccati perché la legge non era uguale nemmeno di fronte alla morte e diversificava le pene a seconda del censo. Per primo salì sul palco Roberto Valeriani. La forca era stata eretta proprio davanti al palazzo dei Dionigi e lo spadaccino del cardinale assisteva soddisfatto allo spettacolo da una delle finestre di casa sua. Poi venne la volta di Porzia che per imperizia del boia nel fare il capestro o per scelta mirata, stentò molto a morire penzolando dal cappio. Infine toccò ai tre servitori, ignari del motivo per cui venivano uccisi. L’unico che si salvò fu l’omicida.
Alla Biblioteca Augusta si conserva un prezioso manoscritto e la prima di quelle pagine ingiallite che sprigionano l’odore dei secoli reca scritto in elegante grafia: “Relazione sulla morte delli Sig.ri Astorre Coppoli, Cavaliere di Malta, Hercole Anastagi, Canonico di Perugia, Roberto Valeriani, Porzia Corradi ne’ Dionigi con tre loro servitori, Carlo, Giovanni Battista e Sorbolone, seguita per giustizia li 21 febr. 1600”.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del 2 novembre 2009)