
GIAMBATTISTA AGRETTI E LA
REPUBBLICA ROMANA DI NAPOLEONE
L’unica idea chiara che aveva in mente era quella di rovesciare il dominio pontificio e fondare una repubblica, ma non sapeva se limitata a Perugia e dintorni, unita alla Cisalpina, o autonoma e comprendente l’Umbria e le Marche. La soluzione più logica appariva quella dell’annessione alla Cisalpina, dal momento che Ferrara, Bologna, Modena e la Romagna, verso la fine del 1797, avevano proclamato la Repubblica Cispadana per confluire subito dopo in quella Cisalpina. Ma su questo problema Giambattista Agretti dimostrava una certa elasticità, anche perché non toccava a lui decidere; a lui interessava rovesciare il dominio papale e proclamare un regime osannante alle libertà democratiche. Per questo il 30 gennaio inviò una lettera ai Perugini sollecitandoli a smuoversi, se volevano liberarsi dal giogo papalino. Aveva indicato anche il triunvirato del governo provvisorio formato da Angelo Cocchi, Annibale Mariotti e Antonio Brizi.
Agretti era un democratico convinto, deciso e facinoroso, uno di quegli uomini che faceva dell’ideologia una religione e della vita una missione; un Robespierre perugino, insomma, o un Pol Pot in anticipo sui tempi, fissato nella esclusiva bontà delle sue idee, da non capire quelle degli altri. Un cronista attendibile come Giovanni Battista Marini sostiene che sarebbe stato l’anima del tumulto di Roma del 28 dicembre 1897 in cui rimase ucciso il generale francese Duphot. L’episodio, come è noto, determinò l’abbandono della sede diplomatica da parte dell’ambasciatore Giuseppe Napoleone, e l’occupazione di Roma ad opera delle truppe del generale Berthier.
Scoccata la scintilla romana, tornò in Umbria con lo stesso proposito e da Città di Castello scrisse la lettera cui si è fatto cenno, a nome dei Tifernati che non ne sapevano niente. La lettera ebbe un seguito positivo perché il suggerimento rientrava nella piega che ormai avevano preso le cose, con i Francesi nella capitale che il 15 febbraio patrocinarono la proclamazione della Repubblica. Il governatore pontificio, monsignor Giacomo Giustiniani, aveva lasciato Perugia il 4 febbraio e subito dopo si insediò un governo provvisorio composto da Cocchi (preside), Agretti (vicepreside) e da altri 17 “municipali”, i quali si circondarono di altri nove collaboratori presieduti da Giuseppe Rosa e Giambattista Laudati. Nel frattempo il preside Cocchi e Annibale Mariotti erano volati a Roma per partecipare alla stesura della Costituzione Repubblicana e Agretti rimase il capo indiscusso del governo provvisorio e dei “municipali”. La pletora dei personaggi che formava il nuovo governo (ventotto persone in tutto) non era esagerata perché in poco più di un mese si tentò di abrogare leggi, assetti istituzionali, costumi e usanze consolidati nei secoli, per sostituirli con altri di segno diverso. Una revisione simile, nata dalla mente delle avanguardie, non ebbe né l’avallo popolare, né il tempo della metabolizzazione e rimase sospesa tra le nuvole del pensiero, tanto a scandire la vita quotidiana ci pensavano le truppe straniere che, come la storia ha sempre dimostrato, possono rimuovere gli ostacoli al progresso civile, ma sono incapaci di seminare i valori di libertà e di democrazia. Quelli erano tempi traboccanti di ottimismo in cui la cultura illuministica garantiva che lo Stato poteva assicurare “la felicità”. Non mi risulta che l’obiettivo sia stato raggiunto; ma in Italia ci si sarebbe accontentati di un traguardo più modesto, quello della giustizia, che non arrivò nemmeno con i lumi del Settecento.
Intanto Agretti, validamente spalleggiato dal frate Urbano Tornera, coltivava la pianta della palingenesi perugina. Aboliti tutti i titoli nobiliari non si vedevano più in giro baroni, conti e marchesi, ma solo “cittadini”. Tutti gli stemmi gentilizi scomparvero dalle arcate dei portoni e le riserve di caccia e di pesca, testimoni di odiosi privilegi, vennero cancellate dalla legislazione. Fu imposto al vescovo di predicare la concordia e l’obbedienza e poteva farlo solo lui con i parroci e i quaresimalisti; tutti gli altri membri del clero dovevano tener la bocca chiusa e giurare odio alla monarchia e fedeltà alla repubblica, al pari degli impiegati civili dello Stato. Il vescovo Alessandro Maria Odoardi giurò con tutti i suoi preti, secondo le indicazioni superiori che miravano ad evitare rotture con il nuovo regime. Così furono molto concilianti i sermoni del prelato pronunciati dall’ambone, dal momento che Agretti gli aveva tolto il privilegio del trono e del baldacchino nel duomo. Vennero soppressi i conventi di Sant’Agostino e di Montemorcino. Le statue bronzee di Giulio III e di Sisto V furono deposte e fuse per fare baiocchi e quella di Paolo III alla Rocca Paolina, in terracotta, fu fatta a pezzi perché non ci si poteva far altro. Così anche l’arte pagò il suo contributo alla rivoluzione. Sotto l’albero della libertà, in Piazza Grande, si bruciarono l’archivio dell’Inquisizione e i tre robusti travi di noce che formavano il patibolo della forca, mentre a San Francesco al Prato veniva issato il traliccio metallico e incombustibile della ghigliottina. Venne istituita la Guardia Nazionale che intruppava i cittadini dai 19 ai 50 anni e si istituì un Comitato di Istruzione Pubblica, vero e proprio ufficio di polizia controllato e diretto da Agretti. Si vendettero i beni ecclesiastici per un valore di 4 milioni e vennero requisiti gli oggetti d’oro e d’argento delle chiese. Tutte le cedole con un valore superiore a 35 scudi furono annullate. Fu abolita la tassa sul macinato e abbassato il prezzo del sale. I provvedimenti amministrativi varati nel primo mese di governo vietarono alcuni giochi da bettola, le processioni notturne, le tettoie sulle officine, le cocce sui davanzali delle finestre, le questue campestri per le feste e i pranzi in onore del patrono nelle campagne.
L’Agretti e il suo frate Tornera si dettero un gran da fare per diffondere tra il popolo la nuova scienza della democrazia. Ma qualche difetto di comunicazione si verificò se i contadini insorsero al grido di “Viva Maria!” proprio in seguito alla proibizione delle questue. La banalità del motivo denuncia che i valori più validi della repubblica non erano stati trasmessi dall’Olimpo giacobino degli illuminati ai terrestri sanculotti delle periferie. Così ci fu anche una Vandea umbra mentre i collaboratori del generale corso, con tenacia rapace, spogliavano l’Italia occupata dei suoi capolavori artistici.
Agretti “era uno dei capi più esaltati del partito nazionale”, secondo l’affermazione di Luigi Bonazzi che ebbe modo di conoscerlo dopo la Restaurazione del Quindici. In una nota della sua “Storia di Perugia” dice che viveva solitario e triste e scriveva in toni enfatici, chiamando “caste vergini e matrone” le donne della Conca. L’assuefazione all’oppio lo aveva costretto ad assumerne ogni giorno una dose maggiore e per l’estrema povertà in cui versava, la droga gli veniva fornita gratuitamente dalla farmacia di San Martino.
Il 20 marzo fu promulgata la nuova Costituzione che divideva lo Stato Pontificio in otto dipartimenti. L’Umbria ne comprendeva due,: quello del Clitunno e del Trasimeno, cui apparteneva Perugia. A capo del dipartimento del Trasimeno, diviso in tredici cantoni ognuno con il proprio prefetto e la propria municipalità, fu posto il saggio ed equilibrato Annibale Mariotti, affiancato da un triunvirato composto da Angelo Cocchi, Giulio Cesarei e Mariano Guardabassi. Giambattista Agretti era scomparso dai ranghi alti della nomenclatura.
Roberto Sciurpa
L’unica idea chiara che aveva in mente era quella di rovesciare il dominio pontificio e fondare una repubblica, ma non sapeva se limitata a Perugia e dintorni, unita alla Cisalpina, o autonoma e comprendente l’Umbria e le Marche. La soluzione più logica appariva quella dell’annessione alla Cisalpina, dal momento che Ferrara, Bologna, Modena e la Romagna, verso la fine del 1797, avevano proclamato la Repubblica Cispadana per confluire subito dopo in quella Cisalpina. Ma su questo problema Giambattista Agretti dimostrava una certa elasticità, anche perché non toccava a lui decidere; a lui interessava rovesciare il dominio papale e proclamare un regime osannante alle libertà democratiche. Per questo il 30 gennaio inviò una lettera ai Perugini sollecitandoli a smuoversi, se volevano liberarsi dal giogo papalino. Aveva indicato anche il triunvirato del governo provvisorio formato da Angelo Cocchi, Annibale Mariotti e Antonio Brizi.
Agretti era un democratico convinto, deciso e facinoroso, uno di quegli uomini che faceva dell’ideologia una religione e della vita una missione; un Robespierre perugino, insomma, o un Pol Pot in anticipo sui tempi, fissato nella esclusiva bontà delle sue idee, da non capire quelle degli altri. Un cronista attendibile come Giovanni Battista Marini sostiene che sarebbe stato l’anima del tumulto di Roma del 28 dicembre 1897 in cui rimase ucciso il generale francese Duphot. L’episodio, come è noto, determinò l’abbandono della sede diplomatica da parte dell’ambasciatore Giuseppe Napoleone, e l’occupazione di Roma ad opera delle truppe del generale Berthier.
Scoccata la scintilla romana, tornò in Umbria con lo stesso proposito e da Città di Castello scrisse la lettera cui si è fatto cenno, a nome dei Tifernati che non ne sapevano niente. La lettera ebbe un seguito positivo perché il suggerimento rientrava nella piega che ormai avevano preso le cose, con i Francesi nella capitale che il 15 febbraio patrocinarono la proclamazione della Repubblica. Il governatore pontificio, monsignor Giacomo Giustiniani, aveva lasciato Perugia il 4 febbraio e subito dopo si insediò un governo provvisorio composto da Cocchi (preside), Agretti (vicepreside) e da altri 17 “municipali”, i quali si circondarono di altri nove collaboratori presieduti da Giuseppe Rosa e Giambattista Laudati. Nel frattempo il preside Cocchi e Annibale Mariotti erano volati a Roma per partecipare alla stesura della Costituzione Repubblicana e Agretti rimase il capo indiscusso del governo provvisorio e dei “municipali”. La pletora dei personaggi che formava il nuovo governo (ventotto persone in tutto) non era esagerata perché in poco più di un mese si tentò di abrogare leggi, assetti istituzionali, costumi e usanze consolidati nei secoli, per sostituirli con altri di segno diverso. Una revisione simile, nata dalla mente delle avanguardie, non ebbe né l’avallo popolare, né il tempo della metabolizzazione e rimase sospesa tra le nuvole del pensiero, tanto a scandire la vita quotidiana ci pensavano le truppe straniere che, come la storia ha sempre dimostrato, possono rimuovere gli ostacoli al progresso civile, ma sono incapaci di seminare i valori di libertà e di democrazia. Quelli erano tempi traboccanti di ottimismo in cui la cultura illuministica garantiva che lo Stato poteva assicurare “la felicità”. Non mi risulta che l’obiettivo sia stato raggiunto; ma in Italia ci si sarebbe accontentati di un traguardo più modesto, quello della giustizia, che non arrivò nemmeno con i lumi del Settecento.
Intanto Agretti, validamente spalleggiato dal frate Urbano Tornera, coltivava la pianta della palingenesi perugina. Aboliti tutti i titoli nobiliari non si vedevano più in giro baroni, conti e marchesi, ma solo “cittadini”. Tutti gli stemmi gentilizi scomparvero dalle arcate dei portoni e le riserve di caccia e di pesca, testimoni di odiosi privilegi, vennero cancellate dalla legislazione. Fu imposto al vescovo di predicare la concordia e l’obbedienza e poteva farlo solo lui con i parroci e i quaresimalisti; tutti gli altri membri del clero dovevano tener la bocca chiusa e giurare odio alla monarchia e fedeltà alla repubblica, al pari degli impiegati civili dello Stato. Il vescovo Alessandro Maria Odoardi giurò con tutti i suoi preti, secondo le indicazioni superiori che miravano ad evitare rotture con il nuovo regime. Così furono molto concilianti i sermoni del prelato pronunciati dall’ambone, dal momento che Agretti gli aveva tolto il privilegio del trono e del baldacchino nel duomo. Vennero soppressi i conventi di Sant’Agostino e di Montemorcino. Le statue bronzee di Giulio III e di Sisto V furono deposte e fuse per fare baiocchi e quella di Paolo III alla Rocca Paolina, in terracotta, fu fatta a pezzi perché non ci si poteva far altro. Così anche l’arte pagò il suo contributo alla rivoluzione. Sotto l’albero della libertà, in Piazza Grande, si bruciarono l’archivio dell’Inquisizione e i tre robusti travi di noce che formavano il patibolo della forca, mentre a San Francesco al Prato veniva issato il traliccio metallico e incombustibile della ghigliottina. Venne istituita la Guardia Nazionale che intruppava i cittadini dai 19 ai 50 anni e si istituì un Comitato di Istruzione Pubblica, vero e proprio ufficio di polizia controllato e diretto da Agretti. Si vendettero i beni ecclesiastici per un valore di 4 milioni e vennero requisiti gli oggetti d’oro e d’argento delle chiese. Tutte le cedole con un valore superiore a 35 scudi furono annullate. Fu abolita la tassa sul macinato e abbassato il prezzo del sale. I provvedimenti amministrativi varati nel primo mese di governo vietarono alcuni giochi da bettola, le processioni notturne, le tettoie sulle officine, le cocce sui davanzali delle finestre, le questue campestri per le feste e i pranzi in onore del patrono nelle campagne.
L’Agretti e il suo frate Tornera si dettero un gran da fare per diffondere tra il popolo la nuova scienza della democrazia. Ma qualche difetto di comunicazione si verificò se i contadini insorsero al grido di “Viva Maria!” proprio in seguito alla proibizione delle questue. La banalità del motivo denuncia che i valori più validi della repubblica non erano stati trasmessi dall’Olimpo giacobino degli illuminati ai terrestri sanculotti delle periferie. Così ci fu anche una Vandea umbra mentre i collaboratori del generale corso, con tenacia rapace, spogliavano l’Italia occupata dei suoi capolavori artistici.
Agretti “era uno dei capi più esaltati del partito nazionale”, secondo l’affermazione di Luigi Bonazzi che ebbe modo di conoscerlo dopo la Restaurazione del Quindici. In una nota della sua “Storia di Perugia” dice che viveva solitario e triste e scriveva in toni enfatici, chiamando “caste vergini e matrone” le donne della Conca. L’assuefazione all’oppio lo aveva costretto ad assumerne ogni giorno una dose maggiore e per l’estrema povertà in cui versava, la droga gli veniva fornita gratuitamente dalla farmacia di San Martino.
Il 20 marzo fu promulgata la nuova Costituzione che divideva lo Stato Pontificio in otto dipartimenti. L’Umbria ne comprendeva due,: quello del Clitunno e del Trasimeno, cui apparteneva Perugia. A capo del dipartimento del Trasimeno, diviso in tredici cantoni ognuno con il proprio prefetto e la propria municipalità, fu posto il saggio ed equilibrato Annibale Mariotti, affiancato da un triunvirato composto da Angelo Cocchi, Giulio Cesarei e Mariano Guardabassi. Giambattista Agretti era scomparso dai ranghi alti della nomenclatura.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del 1° febbraio 2010)