PERUGIA DEL REGNO D’ITALIA ALLA LENTE DI ALCUNI NUMERI

Il primo censimento del Regno d’Italia si fece nel 1861. Pur con tutti i limiti organizzativi e le approssimazioni dei rilevatori, i dati raccolti furono la prima fotografia veritiera della popolazione italiana. Il censimento rispondeva allora ad una logica produttiva, tanto che i primi cinque (dal 1861 al 1911, nel 1891 non ci fu censimento) furono disposti dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio; quello del 1921 dal Ministero dell’Economia Nazionale, per passare, dal 1931 in poi, alle competenze dell’Istat.
Le cifre sugli abitanti di Perugia conosciute fino ad allora si basavano su affermazioni autorevoli di insigni scrittori, ma erano empiriche, molto approssimative e in alcuni casi infondate. Le mura etrusche, ad esempio, avrebbero racchiuso quarantamila abitanti, un numero enorme, sicuramente mai raggiunto nei duemila anni successivi. Una densità simile avrebbe incentivato l’opera di decimazione delle pestilenze che in ripetute occasioni, nei secoli successivi, arrivarono a sfoltire il 30% della popolazione. Nel 1300 Perugia contava circa 25-30 mila abitanti e altrettanti sparsi nel contado. La “Relazione sui Castelli dell’Umbria” di fine 1500 di Cipriano Piccolpasso glie ne attribuiva 32.000, scesi a 14.000 a metà del 1700 in seguito ad epidemie disastrose. In un diario perugino del 1772 si afferma che gli abitanti della città erano 16.000. Gabriele Calindri sul “Saggio statistico e storico” del 1829, relativo allo Stato pontificio, sostiene che la città contava 14.886 abitanti sui 2.592.329 di tutto il territorio del Papa. Interessante è notare la classificazione: 1° accattoni, ciarlatani, inabili, vagabondi, zingari e altra gente perniciosa alla società = 406.000; 2° dediti all’agricoltura e alla pastorizia = 1.776.000; 3° dediti alle Arti belle e alle Scienze utili = 24.000; 4° fanciulli in tenera età (?) = 217.000 Dopo quello dei contadini, i malandrini di Calindri rappresentavano il secondo partito.
Nella cultura del tempo il numero esatto delle persone aveva poca importanza. Il potere pubblico contava le famiglie (i fuochi), perché “il focatico” era alla base dell’imposizione tributaria; “le bocche” appaiono molto raramente e l’espressione materialistica fu resa più nobile dall’illuminismo che preferì parlare di “teste”. Solo le parrocchie registravano con cura nei loro archivi il numero delle “anime”, ma questi documenti, spesso mal tenuti, sono in gran parte dispersi e non esistono sintesi complessive a livello diocesano.
I dati forniti dal primo censimento unitario dicono che il comune di Perugia contava 44.125 abitanti di cui 14.880 residenti in città, 5.332 nelle frazioni e 23.913 in campagna. Quello del decennale registra un aumento di circa cinquemila unità, così distribuite: città 16.708, frazioni 5.869 e campagna 26.926 con un incremento vistoso soprattutto nella popolazione dei campi. La tendenza all’aumento fu sempre costante, anche se lenta, fino al censimento del 1901 in cui il comune raggiunse i 58.753 abitanti, 20.000 dei quali residenti in città e distribuiti in 4.484 famiglie con una media familiare di 4,5, leggermente più alta di quella di oggi.
Sul piano sociale il progresso stentava. L’ospedale trecentesco di via Oberdam non riusciva a rispondere alle cresciute richieste. Nel 1891 aveva assistito 1290 malati, una cifra enorme per quei tempi e in quella struttura. Per aumentare gli spazi erano stati sfrattati i trovatelli, ma fu un provvedimento insufficiente. I bambini abbandonati, più noti col nome di “bisci”, erano 2.029 e 1.734 di essi erano stati affidati agli “allevatori” in campagna. Il sindaco Ansidei aveva istituito alcune condotte mediche nelle campagne, aumentate dai suoi successori, ma erano poche in relazione alla enorme massa di gente che viveva sui campi. L’analfabetismo sfiorava il 90% e sebbene la legge Casati avesse dichiarato guerra all’ignoranza, rimase a lungo una piaga sociale. Le scuole serali erano state istituite, come pure i corsi affrettati per preparare i maestri. Chiunque sapesse leggere e scrivere poteva diventare docente a 333 lire l’anno, il tetto minimo fissato dalla legge Casati, a carico del Comune. La prassi del “mutuo insegnamento” (chi sapeva qualcosa insegnava a quelli che non sapevano niente) era resa necessaria dalle circostanze. Il mestiere della docenza fu povero e anonimo fin dall’inizio, come i bisci, se si considera che nello stesso periodo il segretario del Comune percepiva 4.000 lire l’anno, l’ingegnere capo (che era un geometra) e il ragioniere 3.600, e il facchino, cui era concesso fare un secondo lavoro, 600.
Il tenore di vita era basso e i prezzi salivano sempre più, pur rimanendo inferiori a quelli del nord. A causa della tassa sul macinato il prezzo del pane era raddoppiato dai tempi del Papa: costava 44 centesimi al chilo, contro i 58 di Bologna. L’olio d’oliva andava da 92 a 110 lire l’ettolitro, contro i 135-148 del nord. Il vino costava 13,40 lire l’ettolitro, contro le 29 di Bologna. Era più cara solo la carne bovina e la gente comprava il castrato. A “La Corona”, una locanda media di via Mazzini, frequentata da commercianti e giovani tenenti della guarnigione, si mangiava con una lira e mezzo. Una piccola casa in periferia costava 200 lire all’anno di affitto, mentre il prezzo dell’usato era abbordabile; in via Appia una casa a due piani con dodici ambienti era offerta a 4.500 lire nel 1872. Gli appartamenti nuovi di Palazzo Calderini si vendevano dalle sette alle diecimila lire, a seconda dell’altezza. Quelli dei piani bassi costavano più perché nel conto erano comprese le energie risparmiate per salire in cima senza ascensore.
Le vacanze al mare o in montagna non si conoscevano e la massima aspirazione della borghesia perugina era espressa nella triade: “Moglie bella, casa al Corso, villa a Prepo!”
I rapporti sociali diventavano sempre più dialettici per la nascita di ideologie e di interessi contrapposti.
Il clero temporalista veniva guardato con diffidenza e non mancarono gesti di dileggio, in particolare verso i frati. Ci furono anche episodi spiacevoli e gravi che non avevano niente a che vedere con la fede nelle proprie convinzioni. A volte, però, qualche prete “te le cavava dalle mani”, come successe nel 1873 quando il parroco del Duomo si rifiutò di battezzare un bambino perché i genitori volevano chiamarlo “Italo”. Lo riportarono all’ospedale dove era nato ed il cappellano non ebbe scrupoli ad amministrare il sacramento.
Sul finire della primavera del 1873, il prezzo del pane era ancora salito ed aveva raggiunto i 50 centesimi al chilo. La povera gente, pur consapevole che non erano le manovre speculative a determinare il rincaro, ma l’andamento del raccolto, non ne poteva più e il 2 luglio si ebbe una massiccia manifestazione contro il carovita. Migliaia di persone si radunarono in Piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza Italia) e dopo concitati discorsi sfilarono in corteo per il Corso fino al Palazzo dei Priori scandendo le parole “carovivere” e “monopolio”. Ad arringare quella gente c’erano nomi di spicco della borghesia perugina come Raffaele Omicidi, Braccio Salvatori, Francesco Seracchi e Guglielmo Calderini.
La popolazione stava prendendo coscienza della condizione insostenibile e si organizzava per migliorare la propria esistenza, ancora più in fretta del cambio delle abitudini e dello stile di vita: agli inizi del 1900, l’angusta via Bonazzi era piena di scuderie e i passanti si lamentavano temendo di prendere qualche calcio mentre i mansueti quadrupedi venivano strigliati all’aperto.
Roberto Sciurpa
(Pubblicato su Corriere dell'Umbria del