
Nel periodo in cui i cinesi costruivano la Grande Muraglia per difendersi dagli invasori provenienti da ovest, i romani erigevano il limes per arrestare i barbari minacciosi dell’est. Nel corso della sua lunga storia, la politica romana era andata alla ricerca di frontiere naturali e le aveva trovate nei grandi fiumi: l’Eufrate, il Danubio e il Reno. Nei punti dove essi vennero varcati per più avanzate conquiste, fu costruito il limes, un capolavoro di ingegneria militare che ha offerto molti suggerimenti ai progettisti della Maginot. I resti del Vallo di Adriano, in Inghilterra, testimoniano ancora la superba tecnica e l’intelligente strategia delle legioni romane. Ma anche le fortificazioni più ingegnose e robuste hanno un senso finché c’è chi le presidia e diventano un monumento allo spreco se viene meno la presenza delle guarnigioni di difesa.
All’inizio del terzo secolo d.C., quando l’Impero cominciò a presentare evidenti sintomi di sgretolamento, arrivarono dall’oriente agguerriti gruppi di popolazioni, che i romani chiamavano “barbari”, e si insediarono ad limina, ossia ai confini dell’Impero, in attesa del momento opportuno per agguantare la preda.
L’assalto avvenne in due modi. Il primo e più decisivo fu quello dell’infiltrazione legittima in un apparato fondamentale dello Stato: l’esercito. Fin dai tempi di Diocleziano e Costantino categorie sempre più larghe e numerose di cittadini romani vennero esentate dal servizio militare e al loro posto subentrarono elementi di varia stirpe. “Sono partiti con i barbari”, dicevano le mamme parlando dei loro figlioli arruolati, e “fisco barbarico” venne chiamata la cinquina. La figura del cittadino soldato scompariva lentamente e lo Stato Maggiore dell’esercito, un tempo costituito dalle principali magistrature (consoli, tribuni, pretori, censori, ecc.), finì per diventare appannaggio dei coraggiosi guerrieri venuti dall’est. Il barbaro non si sentiva “cittadino” ma solo “individuo”, fedele al capo che si era scelto. L’esercito romano non esisteva più e al suo posto era nata una milizia personale agli ordini di un comandante straniero. Alcuni imperatori, consapevoli della precarietà della situazione, arrivarono persino a pagare un tributo alle popolazioni schierate lungo i confini perché non invadessero il territorio dell’Impero. Era l’ammissione più esplicita dell’impotenza e della sudditanza. Il patriziato e la borghesia di Roma avevano perso il senso di ogni valore e si godevano la vita senza ideali e senza aspirazioni, mentre la plebe continuava a produrre e a servire priva di ogni voce politica, come in passato.
Il secondo assalto fu quello dell’invasione armata. “Le alluvioni barbariche” su cui si è tanto fantasticato erano carovane composte al massimo da centoventimila individui, ma raramente superavano i trenta o i quarantamila ed i guerrieri costituivano circa un quinto del totale. Essi precedevano la carovana a cavallo e dietro seguivano i carri con i vecchi, le donne e i bambini. Gli Ostrogoti di Teodorico non superavano le seimila unità, gli altri erano Gepidi, Alani, Rugi, Sciri, resti di tribù vinte e unitesi al vincitore. La stessa cosa vale per gli Unni di Attila. Solo l’invasione longobarda fu più massiccia e omogenea delle altre. Il trattamento dei popoli sottomessi variava a seconda della resistenza che avevano opposto e andava dallo sterminio alla fusione pacifica. I vinti non venivano ridotti in schiavitù perché essa era incompatibile con il nomadismo e riapparirà solo dopo la conversione dei nuovi padroni alla sedentarietà e all’agricoltura.
La penisola italica, in quel periodo, offriva ampi spazi per altri inquilini. Non esistono censimenti ufficiali, ma secondo il parere attendibile degli esperti, la popolazione autoctona non era superiore ai sei milioni di abitanti, concentrata prevalentemente nelle città e nei dintorni di esse. I nuovi arrivati si insediarono nei luoghi ritenuti più consoni alle loro esigenze, abbandonarono lentamente il nomadismo e mantennero i loro costumi accanto a quelli dei sottomessi. Sorsero nuove entità socio-politiche che presero il nome di “regni romano-barbarici”. In questa marmellata di tradizioni, usanze e costumi, l’identità della civiltà romana si attenuò adattandosi alle nuove presenze e seguendo il principio dei vasi comunicanti. L’unico presidio autorevole e coriaceo che custodì i valori della cultura, del diritto e della religione fu la Chiesa di Roma che traghettò fino a noi i resti di una civiltà gloriosa, altrimenti dispersa.
Si sa che la storia si ripete con una ciclicità ricorrente. Gli antichi si sono sforzati di insegnarci che essa è “magistra vitae”, gettando una manciata di ottimismo nell’eterno ritorno del ciclo. Secondo i loro saggi insegnamenti, gli eventi che si ripetono sono sempre migliori dei precedenti perché plasmati dall’esperienza del passato. Ma uno scrittore triste non la pensa così. Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, che egli definisce la sua “opera più importante e duratura”, scaglia sassate di pessimismo contro l’idillio di un’evoluzione storica che va verso il meglio. Rivisitando il mito di Orfeo ed Euridice, nel capitolo L’inconsolabile, afferma che “ciò che è stato sarà… ciò che è stato sarà ancora” e “allora dissi Sia finita e mi voltai”. Si voltò consapevole di perdere la sua donna, ricacciandola nell’Ade in cui era andato a riprenderla, e non lo fece per l’irresistibile voglia di guardarla, come la leggenda sostiene, ma con il proposito di lasciarla dov’era per non ripetere le sofferenze di una nuova esistenza.
Non so se abbia ragione Pavese o la massima che gli antenati ci hanno tramandato. L’esperienza, anche recentissima, dimostra che la storia non sempre è maestra, anzi ripropone gli orrori del passato con tecniche più raffinate e feroci.
Il ciclo di un consistente bradisismo etnico è oggi sotto gli occhi di tutti. Le analogie con le invasioni del Basso Impero riguardano solo gli effetti che il fenomeno potrebbe produrre, ma sono del tutto diverse nella forma, nelle cause e nei protagonisti. Non si tratta di gruppi che premono ai confini di uno Stato all’interno di un continente, ma di movimenti intercontinentali che vanno dall’Europa all’America Latina e dall’Africa all’Asia. Meta di destinazione non è solo un Paese, ma tutti quelli più industrializzati dell’Europa. I protagonisti non sono “barbari”, ma persone portatrici di una identità culturale e religiosa profonde. La molla dell’emigrazione non è il desiderio di trovare un territorio propizio per escursioni nomadi, ma il morso della miseria reso stridente dal paradiso dei ricchi, sbattuto in faccia della povera gente dalle suggestive immagini della comunicazione televisiva. In questo clima, dai risvolti socio-politici molto complessi, nasce l’avvio ormai irreversibile verso una società multietnica ed interculturale che va gestita con tempestività e saggezza. Non si tratta di innalzare le diverse identità a barriere contrapposte ed in lotta tra loro, né di svendere in modo demagogico elementi della tradizione per apparire più “solidali” degli altri. Gli atteggiamenti integralisti e il populismo portano entrambi al razzismo. La marmellata del Basso Impero è un prodotto scaduto. L’equilibrio si mantiene con la difesa della nostra identità senza tentennamenti, riconoscendo agli altri la stessa dignità non solo a parole, ma anche con interventi concreti per esercitarla, all’interno del principio della territorialità del diritto che è la garanzia della sovranità e la salvaguardia delle tradizioni di un popolo.
Roberto Sciurpa
(Pubbhlicato su Corriere dell'Umbria del 19 dicembre 2005)
All’inizio del terzo secolo d.C., quando l’Impero cominciò a presentare evidenti sintomi di sgretolamento, arrivarono dall’oriente agguerriti gruppi di popolazioni, che i romani chiamavano “barbari”, e si insediarono ad limina, ossia ai confini dell’Impero, in attesa del momento opportuno per agguantare la preda.
L’assalto avvenne in due modi. Il primo e più decisivo fu quello dell’infiltrazione legittima in un apparato fondamentale dello Stato: l’esercito. Fin dai tempi di Diocleziano e Costantino categorie sempre più larghe e numerose di cittadini romani vennero esentate dal servizio militare e al loro posto subentrarono elementi di varia stirpe. “Sono partiti con i barbari”, dicevano le mamme parlando dei loro figlioli arruolati, e “fisco barbarico” venne chiamata la cinquina. La figura del cittadino soldato scompariva lentamente e lo Stato Maggiore dell’esercito, un tempo costituito dalle principali magistrature (consoli, tribuni, pretori, censori, ecc.), finì per diventare appannaggio dei coraggiosi guerrieri venuti dall’est. Il barbaro non si sentiva “cittadino” ma solo “individuo”, fedele al capo che si era scelto. L’esercito romano non esisteva più e al suo posto era nata una milizia personale agli ordini di un comandante straniero. Alcuni imperatori, consapevoli della precarietà della situazione, arrivarono persino a pagare un tributo alle popolazioni schierate lungo i confini perché non invadessero il territorio dell’Impero. Era l’ammissione più esplicita dell’impotenza e della sudditanza. Il patriziato e la borghesia di Roma avevano perso il senso di ogni valore e si godevano la vita senza ideali e senza aspirazioni, mentre la plebe continuava a produrre e a servire priva di ogni voce politica, come in passato.
Il secondo assalto fu quello dell’invasione armata. “Le alluvioni barbariche” su cui si è tanto fantasticato erano carovane composte al massimo da centoventimila individui, ma raramente superavano i trenta o i quarantamila ed i guerrieri costituivano circa un quinto del totale. Essi precedevano la carovana a cavallo e dietro seguivano i carri con i vecchi, le donne e i bambini. Gli Ostrogoti di Teodorico non superavano le seimila unità, gli altri erano Gepidi, Alani, Rugi, Sciri, resti di tribù vinte e unitesi al vincitore. La stessa cosa vale per gli Unni di Attila. Solo l’invasione longobarda fu più massiccia e omogenea delle altre. Il trattamento dei popoli sottomessi variava a seconda della resistenza che avevano opposto e andava dallo sterminio alla fusione pacifica. I vinti non venivano ridotti in schiavitù perché essa era incompatibile con il nomadismo e riapparirà solo dopo la conversione dei nuovi padroni alla sedentarietà e all’agricoltura.
La penisola italica, in quel periodo, offriva ampi spazi per altri inquilini. Non esistono censimenti ufficiali, ma secondo il parere attendibile degli esperti, la popolazione autoctona non era superiore ai sei milioni di abitanti, concentrata prevalentemente nelle città e nei dintorni di esse. I nuovi arrivati si insediarono nei luoghi ritenuti più consoni alle loro esigenze, abbandonarono lentamente il nomadismo e mantennero i loro costumi accanto a quelli dei sottomessi. Sorsero nuove entità socio-politiche che presero il nome di “regni romano-barbarici”. In questa marmellata di tradizioni, usanze e costumi, l’identità della civiltà romana si attenuò adattandosi alle nuove presenze e seguendo il principio dei vasi comunicanti. L’unico presidio autorevole e coriaceo che custodì i valori della cultura, del diritto e della religione fu la Chiesa di Roma che traghettò fino a noi i resti di una civiltà gloriosa, altrimenti dispersa.
Si sa che la storia si ripete con una ciclicità ricorrente. Gli antichi si sono sforzati di insegnarci che essa è “magistra vitae”, gettando una manciata di ottimismo nell’eterno ritorno del ciclo. Secondo i loro saggi insegnamenti, gli eventi che si ripetono sono sempre migliori dei precedenti perché plasmati dall’esperienza del passato. Ma uno scrittore triste non la pensa così. Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, che egli definisce la sua “opera più importante e duratura”, scaglia sassate di pessimismo contro l’idillio di un’evoluzione storica che va verso il meglio. Rivisitando il mito di Orfeo ed Euridice, nel capitolo L’inconsolabile, afferma che “ciò che è stato sarà… ciò che è stato sarà ancora” e “allora dissi Sia finita e mi voltai”. Si voltò consapevole di perdere la sua donna, ricacciandola nell’Ade in cui era andato a riprenderla, e non lo fece per l’irresistibile voglia di guardarla, come la leggenda sostiene, ma con il proposito di lasciarla dov’era per non ripetere le sofferenze di una nuova esistenza.
Non so se abbia ragione Pavese o la massima che gli antenati ci hanno tramandato. L’esperienza, anche recentissima, dimostra che la storia non sempre è maestra, anzi ripropone gli orrori del passato con tecniche più raffinate e feroci.
Il ciclo di un consistente bradisismo etnico è oggi sotto gli occhi di tutti. Le analogie con le invasioni del Basso Impero riguardano solo gli effetti che il fenomeno potrebbe produrre, ma sono del tutto diverse nella forma, nelle cause e nei protagonisti. Non si tratta di gruppi che premono ai confini di uno Stato all’interno di un continente, ma di movimenti intercontinentali che vanno dall’Europa all’America Latina e dall’Africa all’Asia. Meta di destinazione non è solo un Paese, ma tutti quelli più industrializzati dell’Europa. I protagonisti non sono “barbari”, ma persone portatrici di una identità culturale e religiosa profonde. La molla dell’emigrazione non è il desiderio di trovare un territorio propizio per escursioni nomadi, ma il morso della miseria reso stridente dal paradiso dei ricchi, sbattuto in faccia della povera gente dalle suggestive immagini della comunicazione televisiva. In questo clima, dai risvolti socio-politici molto complessi, nasce l’avvio ormai irreversibile verso una società multietnica ed interculturale che va gestita con tempestività e saggezza. Non si tratta di innalzare le diverse identità a barriere contrapposte ed in lotta tra loro, né di svendere in modo demagogico elementi della tradizione per apparire più “solidali” degli altri. Gli atteggiamenti integralisti e il populismo portano entrambi al razzismo. La marmellata del Basso Impero è un prodotto scaduto. L’equilibrio si mantiene con la difesa della nostra identità senza tentennamenti, riconoscendo agli altri la stessa dignità non solo a parole, ma anche con interventi concreti per esercitarla, all’interno del principio della territorialità del diritto che è la garanzia della sovranità e la salvaguardia delle tradizioni di un popolo.
Roberto Sciurpa